Tuesday, December 01, 2015

Idee di università


Il tema di oggi è “l'idea di università'”... una parola! Il solo tentativo di mettere a fuoco con maggiore precisione l'argomento si infrange con la difficoltà di scegliere uno  fra i moltissimi aspetti che mi sembrano centrali quando si parla d'università oggi.

È forse questo il confuso nesso che mi fa tornare alla memoria Italo Calvino e le sue “Lezioni Americane”. In particolare, mi pare che la Molteplicità possa sintetizzare l'idea di università che discuterò brevemente in questa nota (senza la benché minima pretesa di rendere onore alla bellezza e profondità del testo di Calvino).


All'università oggi viene chiesto di tutto: oltre ai compiti tradizionali, istruzione superiore e costruzione di ricerca e sapere critico, sono richieste attività di terza missione, differenziazione e formazione specialistica. Non che agire su molti fronti sia in sé una novità: al buon docente veniva un tempo richiesto di svolgere con brillantezza compiti didattici, organizzativi e di ricerca che, a ben guardare, potrebbero domandare attitudini e preparazione differenziate, non sempre reperibili nei medesimi soggetti. Eppure, adesso serve di più, di meglio, per molti più studenti/utenti che in passato, con personale in numero inferiore e risorse ridotte e tagliate di continuo.

E chi se la può permettere questa Molteplicità?

Credo che l'innovazione tecnologica possa e debba essere utilizzata per rendere le nostre università molteplici e in grado di affrontare le impegnative sfide che ci vengono proposte. Non mi soffermerò sui modi in cui tecnologia e software stiano incidendo nei processi amministrativi, di raccolta dati e controllo/gestione degli atenei. Certamente, l'impiego comune di pacchetti come U-GOV o Esse3 ha portato anche miglioramenti (oltre che inenarrabili sofferenze...) Ritengo che l'innovazione in ambito didattico abbia un potenziale enorme e largamente non ancora sfruttato.

Mi riferisco in particolare alla crescente diffusione in ambito internazionale di pratiche didattiche che si potrebbero genericamente definire con i termini multimediali o elearning. Per dare un'idea, penso a corsi MOOC (Massive Open Online Courses), flipped lectures (“lezioni capovolte”), insegnamenti a distanza, master executive, corsi d'aggiornamento...

Un ateneo molteplice dovrebbe forse attrezzarsi per consentire ai propri docenti di accedere facilmente alla possibilità di creare prodotti didattici in video o multimediali, aperti a tutti ed erogati sul web, anche in lingua straniera. Evitando alcuni flop clamorosi del passato e disastri pedagogici, come filmare le lezioni in presenza, le attività sarebbero basate su:

  • brevi video da 8-12 minuti di durata;
  • quiz e materiali di autovalutazione;
  • assistenza e tutoraggio online da parte di personale esperto sia di questioni tecniche-informatiche sia disciplinari;
  • presidio di forum, blog e canali social. 

Alcuni di voi potranno intravedere in questa lista una descrizione di quello che è un buon MOOC. Ma si dovrebbe aspirare a qualcosa di più generale. I materiali video, multimediali e veicolati via web dovrebbero essere una commodity. Leggo sul dizionario la definizione di commodity:
a useful or valuable thing, such as water or time.
Potrei tradurre in italiano come “bene di largo consumo”, di basso costo e di grande potenzialità. In ambito agricolo, ad esempio, il termine commodity si riferisce a materie prime come i cereali, che oltre ad essere molto diffusi, si prestano alla creazione di molteplici altri prodotti finiti o semilavorati.

La capacità di produrre video e materiali didattici multimediali di alta qualità mette in condizione di miscelare questi oggetti in modi diversi:

  • per creare corsi online o MOOC a costi ridotti (con organizzazione adeguata); 
  • per riconoscere crediti a chi ne ha titolo (persone in regola con iscrizione e tasse) previo  esame in presenza con accertamento di identità;
  • per parificare in ingresso gli studenti, fornendo competenze di base non ancora possedute;
  • per fornire in modo riutilizzabile ed efficiente competenze molto specialistiche destinate a numeri di utenti così bassi da rendere poco pratica l'erogazione di corsi.
  • come supporto a lezioni in presenza, fornendo la possibilità di discutere i video/materiali già visionati/studiati, o attivare forme di didattica non standard (brainstorming, lavori di gruppo, flipped lectures...);
  • per promuovere processi d'internazionalizzazione (se i prodotti sono in qualche lingua veicolare);
  • per presentare pillole di ricerca e didattica al grande pubblico, imprenditori, pensionati.

Ci si può chiedere come sia possibile che un video possa svolgere tutte queste funzioni contemporaneamente: pensate, per fissare le idee e cavalcare l'attualità, a un video sul trattato di Schengen. Come può essere usato per un corso online ma anche in presenza, per studenti del master e per i pensionati? Credo che la risposta sia proprio nella sua natura di commodity, di blocchetto di un Lego che non può prescindere dagli altri mattoncini con cui l'università lo circonda.

  • Gli utenti di un MOOC sul Diritto Europeo erogato interamente online usufruiscono del video e rispondono a semplici quiz. La conoscenza acquisita è, forse, di base e volatile e la persona che ha seguito il corso riceve un semplice attestato di frequenza senza nessun valore legale.
  • Gli studenti regolarmente iscritti usufruiscono del video (a monte) e lo usano come base per una lezione tradizionale (a valle). Il docente, facendo leva su quanto già fatto, può spingere l'analisi a fondo e un esame finale certifica competenze riconosciute con crediti formativi.
  • L'avvocato, il professionista o l'imprenditore che da molto tempo non rinnova il suo bagaglio di nozioni, usa il video in corsi di formazione che prevedono anche discussioni di gruppo e/o panel con esperti. Una verifica finale concorre a certificare che i requisiti di aggiornamento richiesti dalla legge sono stati assolti. 
  • ...

Sono solo esempi ma questa idea di università consente agli atenei di cavalcare le possibilità offerte dalla tecnologia, di continuare a esprimere programmazione didattica di alta qualità, di servire il territorio consentendo agli operatori economici di sapere quel che si crea in accademia, di trarre benefici dalle conoscenze diffuse nei dipartimenti e di riutilizzare spunti, idee e competenze adattandoli ai propri bisogni con flessibilità.
Dicevamo: a useful or valuable thing, such as water or time. Potremmo sintetizzare in:
Le commodity multimediali sono l'acqua e il tempo: ingredienti semplici e preziosi per gli atenei che sanno utilizzarli per creare prodotti formativi ben progettati e “molteplici”.
Rileggo i brevi titoli delle lezioni calviniane: oltre a Molteplicità ci sono Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità. Nella prefazione leggo che sono “alcuni valori letterari da conservare nel prossimo millennio”.
Con eccessivo ardire credo che le commodity multimediali di cui abbiamo parlato per l'università di domani potrebbero essere interpretate secondo canoni simili, “oggetti didattici da progettare per il prossimo decennio”, si parva licet.

[ Testo di una nota presentata al convegno IDEE DI UNIVERSITÀ E STRATEGIE DEGLI ATENEI ITALIANI, organizzato dal centro GEO, 30 novembre - 1 dicembre 2015, Roma, http://www.congressi.unisi.it/geo2015/ ]

Sunday, November 22, 2015

Produttività digitale, una settimana di cattivi pensieri


Rifletto da un po' di tempo sulla rivoluzione digitale che, per dirla con Patti Bravo, ``mi fa girar come fossi una bambola'': spesso sono letteralmente estasiato dalle possibilità della tecnologia, dall'adrenalina che scorre sui social e dal trip che mi porta via quando programmo e posso raggiungere con un codice quel nirvana di soddisfazione che forse solo arte, amore e matematica sanno dare. Allo stesso tempo constato con una qualche apprensione che siamo avvinghiati come tossici tristi all'idea, distribuita a piene mani ovunque, che smart, digital e online siano necessarie e vitali come l'aria che respiriamo. Scusa, spetta n'atimo...

Tutto questo ci rende più produttivi? È una questione dibattuta fra gli economisti (che, a dirla tutta dibattono tutto senza requie!) ma leggo su ``Italia Digitale'' (supplemento Corriere della Sera, 20/11/2015) che in un decennio la produttività attribuibile al progresso tecnico è aumentata dello 0.3% annuo, ma è calata dello 0.7% nel 2014. Per riassumere un po' grossolanamente: forse questa sbornia tecno-IT aumenta il PIL di uno zero-virgola e per dirla con l'autore Massimo Sideri:
La grande promessa dell'impatto della tecnologia sulla produttività generale è tutt'altro che da ritenersi un dato acquisito.
Ieri sono stato alla mia filiale Unicredit, di cui sono cliente da almeno 20 anni. Dovevo ordinare una carta di credito Flexia che rimpiazza (forse) la CartaSi in modo da farmi risparmiare 10 euro a semestre di fee. Visto che c'ero, ho anche aggiornato la MIFID. La tecnologia ormai straripa in una banca: hanno fatto fuori migliaia di dipendenti e chiuso filiali, ti devi fare tutto online: ``è semplice'', ti dicono, clicca qua, clicca là. Ma io non ero riuscito a trovarlo questo link, dato che bisognava ravanare dentro menù esoterici e il primo e unico link in evidenza con scritto ``Aggiorna la tua MIFID'' ti portava unicamente al suggerimento di recarsi in banca... Sarà anche un problema d'interfaccia fatta male, di interazione web-utente del menga e così via, ma io me la sono dovuta incartare e ho risposto in presenza e alla vecchia maniera alle domandine MIFID sul rischio finanziario che tollero.

Ancora più interessante è stato il processo di richiesta della carta. Si segue una serie di schermate e forse è un deja-vù: mi scusi la rete è lenta, c'è l'aggiornamento del software, stamattina la rete è veramente più lenta del solito, non accetta la data, ``non importa, adesso forzo la procedura''... Sono abituato, lo siete probabilmente anche voi, aspetto con stoica pazienza che la mia consulente, ad occhio almeno 55 anni d'età, chiami la Mara, collega più giovane sulla quarantina e più informaticamente sgaggia. Al di là di alcune considerazioni sul digital gap delle generazioni più anziane - pensiero lancinante: mica mi manca tanto tanto ai 55 - la Mara fa progressi ma non siamo diventati schegge. E poi arriva il clou: ``la vuole la foto sulla carta?'' Beh, perché no? È una misura di sicurezza in più, se ti fregano la carta magari non riescono ad usarla nei locali mangiando a ufo, ve lo meritate ladri che non siete altro! Consegno docile la mia carta d'identità, con l'orrenda foto d'ordinanza di cui vado fiero, in cui sembro un serial killer di quelli crudeli e non pentito, e attendo che in un altro ufficio usino lo scanner. Il tempo passa, alla prima bancaria si aggiunge la Mara, il tempo passa. Dopo un po' scendo e vedo tre persone armeggiare sullo scanner, il tempo passa: 20 minuti x 3 persone = 1 ora, w la produttività! Però la Mara ha una marcia in più e avrà il mio sempiterno rispetto per aver staccato lo scanner USB dal computer della collega e averlo trasportato sul suo PC (lo avrei fatto anche io: ci sono tonnellate di casi documentati di apparecchiature non funzionanti su un computer per motivi del tutto ignoti che funzionano come pallettoni sul computer a fianco, del tutto identico a quello recalcitrante). In effetti, lo scanner funziona e Mara vede finalmente la mia faccia.

È fatta, no? Niet, messaggio d'errore: ``i colori sono innaturali'', ma va va... Toglie la carta dall'astuccio plasticato: risulto sempre innaturale; Mara prova con una cartellina di plastica lievemente opaca, lo trovo geniale, tipo effetto calza-flou di Berlusconi: ma purtroppo sono ``innaturale'' un'altra volta; prova pure ad acquisire la foto in bianco/nero: passo da ``innaturale'' a ``troppo ombre sul viso''. Mi sto per incazzare, è mattina e non ho bevuto un goccio di vino che sia uno! Mara è piegata ma non vinta e chiama il collega trentenne (e smanettone) che prova a cambiare i settaggi dello scanner: più contrasto, troppe ombre, meno luminosità, troppe ombre, va a ramengo, troppe ombre innaturali... poi di colpo, ripete la scannata due volte con lo stesso settaggio e, voilà, la foto va bene. Io e Mara gli chiediamo adoranti: ``ma cos'hai fatto?''. Sapete già la risposta: non ha fatto niente, la prima volta ero ombroso e innaturale, la seconda andavo bene anche se ero identico alla prima, io e i settaggi. La finisco qui ma non vi nascondo che la vicenda mi ha lasciato dei dubbi sulla produttività degli operatori di un primario gruppo bancario italiano e del suo po-po di IT e dei milioni che ci hanno speso. Un'ora in tre-quattro persone per una richiesta di carta Flexia o poco più. Certo, si può anche pensare che dipenda dal mio look da serial killer ma credo che tutti abbiano esperienze di quegli inutili, frequenti e sfiancanti combattimenti con i computer che ti fanno perdere tempo e quel che è più importante, pazienza e concentrazione.

Questa esondazione di gadget tecno-touch mi lascia perplesso anche in campo educativo: se non hai una LIM sei una merduccia; senza youtube rasenti il trash; online, connected, MOOC sono placche d'acciaio onnipresenti nella corazza di discorsi e documenti che sento e leggo in ogni momento. Senza la tua dose intravena di digital sei onestamente un figlio di NN e ti rimproverano anche di non voler andare in comunità. Se sapete chi sono forse condividete l'idea che chi scrive non è un luddista che aborrisce le tastiere: passo le mie giornate pestando tasti, adesso ho pure un Iphone con Google calendar, tweetto come un uselet, se non sai R (http://cran.r-project.org/) ti guardo male. Eppure mi chiedo se non sia il caso di rimettere le cose a posto e di smettere di confondere i mezzi coi fini: educare è il fine e lo si può fare in molti modi, bene o male; le tecnologie (LIM, video, Ipad...) sono strumenti che, come tali, possono essere usati male (è facile!) o bene (questo è molto meno semplice). Roberto Casati e il suo bel libro ``Contro il colonialismo digitale'' dice le cose con acume e competenza: i nativi digitali non esistono, la lettura (e aggiungo io, la buona scuola) va difesa dalla miriade di distrazioni a portata di touch. Lo vorreste voi come collaboratore o impiegato un drago del tweet compulsivo o del like multiplo, e whatsappatore frenetico? Non è meglio se ha imparato per bene alcuni concetti base del lavoro che fa, se li applica con accuratezza e concentrazione e se mette competenze diverse dal ``dito sfiorante'' nel suo bagaglio culturale?
Roberto Casati, "Contro il colonialismo digitale", Laterza
Ho sperimentato personalmente la mostruosa intensità didattica che può scorrere nelle vene di studenti e docenti quando l'interazione è mediata e moltiplicata dalla tecnologia. Ma credo ferinamente che non è questione legata al mezzo in sé: i buoni docenti incatenano l'attenzione degli studenti in presenza o online, ci possono essere differenze e sfumature ma la didattica di qualità non dipende dalla modalità d'erogazione e non necessita di LIM, ipad, video, bric e brac e altre amenità. Ho scritto non necessita, gli strumenti usati bene sono utili e a volte utilissimi ma è evidente (a me) che una buona bistecca me la posso mangiare anche a morsi e resta buona e che un buon coltello da cucina aiuta (ma non mi sogno di pensare che è meglio della bistecca).

Sto leggendo ``The organized mind'' di Daniel Levitin, è stato uno studenti di Amos Tverksy, premio nobel per l'economia. Racconta belle storie (quelle che se sei chic le chiami case studies), dice cose sane, dice (lo ripetono tutti da anni) che il cervello odia il multitasking e che le nostre capacità cognitive possono essere aiutate con saggezza delegando alcuni compiti intellettuali ad altro fuori da noi (la segretaria se ce l'avete, liste delle cose da fare, computer). Questo consente di migliorare l'organizzazione del pensiero, ridurre le distrazioni, controllare l'ansia da prestazione (intellettuale, la sessuale è un'altra storia!). Consente specialmente di lasciare che il cervello sia focalizzato su una cosa per volta, consente di esserci con la testa che è cosa difficile da fare fra app, like, smart-phone, sms, email a grappolo... In fondo, è una lezione antica che rasenta il precetto yoga di essere presenti a sè stessi nel momento in cui serve. A me vien in mente anche una versione mindfulness-like di Marx e della sua alienazione: avete presente i colleghi che a un seminario, consultano la posta e, contemporaneamente, messaggiano? In teoria sono li a fianco a te e pare che ascoltino ma non trovo esempio migliore di ``alienato'': sono altrove, la loro testa è fuori. Il che non vuol ancora dire che sono fuori di testa ma non ci manca molto...


Come ulteriore variazione sul tema, "La lettura" di oggi 22/11/2015 ha un pezzo sull'insegnante migliore del mondo (si, c'è scritto così: sono americani, portate pazienza, lo devono chiamare "Global Teacher Prize"). Io m'immagino una rampante collega iperconnessa, super-tecno, connection-savior che fa fare ai suoi studenti geek cose mai viste con le LIM, Ipad e wiki di cui parlavamo prima. Invece, Nancie Atwell di digital pare non avere nulla: una strepitosa signora coi capelli bianchi, china ad ascoltare i suoi studenti in un centro rurale di 1200 abitanti, in qualche pancia d'America:  
I get to demonstrate what is possible, teach what is useful, establish conditions that invite engagement, support the hard work of literary reading and writing, and enjoy the kinds of relationships with adolescents that drew me to education in the first place.
La sua filosofia è semplice, dice ai bimbi di leggere quello che gli pare, sperimenta e sedimenta metodi didattici nuovi, senza tecnologia digitale. Alla fine questi si leggono 40, quaranta?, libri l'anno. Ha vinto un milione di dollari (come Zio Paperone), li investirà nella sua scuola. Evvai, finalmente avranno la banda larga, o no? "Dobbiamo fare alcuni lavori e sistemerò i caloriferi". Si studia male al freddo del Maine, pazienza per i megabit e i touch-screen. Sono contento per i suoi alunni ma in fondo in fondo Nancie scalda il cuore anche a me.

Saturday, October 31, 2015

Museo Bailo

Post veloce per sottolineare un highlight della città che ha di recente bloccato il traffico per la sua (ri)inaugurazione dopo 12 anni di chiusura e quasi 5 anni di lavori.

Siamo stati a vedere il Museo Bailo di Treviso, in una sfolgorante giornata d'autunno, curiosi di vedere per la prima volta le collezioni che contiene. C'è molta trevigianità in Arturo Martini e Gino Rossi e negli altri artisti che comunque solcavano l'europa da Parigi a Monaco per vedere e odorare gli esperimenti artistici di un mondo che viaggiava a folle velocità verso la prima guerra mondiale.

La facciata esterna e la tersa luminosità interna.
Non sono per nulla esperto ma leggo nei pannelli di Arturo Martini e della sua Ca' Pesaro, quando per un periodo l'ombelico del mondo era là. E ci sono le opere, belle, stranianti, anche paurose come una maternità arpia, e insieme dolci e inquietanti.


In alto un gesso di Martini, elegantemente valorizzato da una fascia metallica dorata. Sotto, la versione di Ca' Pesaro a Venezia.
Resta nella memoria anche la forza visionaria e fauve di Gino Rossi, che finì i suoi anni in manicomio dopo aver illuminato il mondo coi colori e con l'amico Martini.

"Paesaggio Asolano" di Gino Rossi. Si vede la chiesetta di Monfumo, edificio familiare a tutti coloro che transitano per i colli.
Il museo in sé è anche una bellezza architettonica che ha valorizzato il convento degli Scalzi e i suoi chiostri. Le finestre disegnano dei De Chirico e i dettagli sono illuminanti, ampie vetrate, grate metalliche e placche d'acciao vivo. Bentornato Bailo!



Un De Chirico fatto in casa, preziose immagini dell'enorme lavoro di  remise en forme del museo e un dettaglio della porta d'ingresso.

Sunday, October 18, 2015

Tutti gli uomini del presidente


Mi godo da giorni, a mo' d'ornitologo, una frenetica attività all'ex-macello. There is something in the air, gran parecio, chiacchiere fra i passanti e molti lavori manuali. Arriva a compimento dopo 19 anni il restauro del Mulino Passuello, il grande S. Giobbe è finito: un lavorone da 19.000 metri quadri, in uno dei luoghi simbolo di questa città screziata di tante cose, inclusi edifici d'archeologia industriale che avevano perfino solleticato i progetti di Le Courbusier.


Abbiamo il mulino, dove si spostano in prevalenza i colleghi giuristi; abbiamo il giardino, dove gli studenti potranno "riposare durante le lezioni" come dice con involontaria comicità la Nuova; abbiamo una biblioteca sfolgorante di luci, volumi e collezioni. Abbiamo tutto... eppure oso trafugare proditoriamente un leggendario pezzo di Bubola, che ho sempre e solo dedicato a Cesira, per provare a colmare una mia inconsolabile e acuta sensazione di mancanza:

E mi trascino la notte e il giorno come un fantasma di bar in bar
bevendo birra, tossendo lacrime sfidando la forza di gravità
con un bicchiere sopra la testa ed una voce dentro di me
che mi ripete, che mi ricorda
che non ho niente se non ho te
molto di niente se non ho te


Potranno mai perdonarmi Bubola (e, specialmente, Cesira!) per questo accostamento? Non ho niente se non ho te, non ho niente se non ho il presidente!

Infatti, come sapete, girava la voce che sarebbe arrivato anche lui, his majesty the king e presidente del consiglio Matteo Renzi. Da giorni ammiravo squadre di lavoratori intervenire con la carriola nel corridoio di S. Giobbe per sistemare la pavimentazione. È stato bello vederli rifare le boiacature fra le pietre d'Istria, cazzuola e via dove c'era più bisogno. Io posso anche pensare che hanno dato, come diremmo dalle mie parti,  na passada dove passa el prete, a macchie di leopardo e allestendo piccoli micro-cantieri. Ma è lo stesso, hanno anche rifatto gli intonaci, anche questi a scacchiera, un pezzetto malandato si, un altro in forma migliore, no. Una lodevole spending review estetica ancor prima che finanziaria: si fa solo quel poco che serve a migliorare tanto l'immagine, il resto della salsedine è evidentemente del maligno.

Microcantiere per pavimentazione e sistemazione locali/intonaci/ quel che serve...
E io che per anni avevo pensato che fosse una cosa ex-democristiana d'altri tempi: prima delle elezioni, che le vincevano sempre loro, comunque si dava un'asfaltata veloce alle stradelle (ve lo ricordate il macadam?) e si cambiavano le lampadine ai lampioni per migliorare la sicurezza notturna. Insomma si metteva a posto. Da noi hanno lavato perfino i vetri, l'ultima volta che io ricordavo simili "pulizie di primavera" risale alla Gelmini! Devo ammettere che questi democristiani erano renziani ante litteram? Forse si, se si giudica dai lavori pubblici che si dispiegano per l'arrivo dei potenti o in occasione degli appuntamenti elettorali. E aggiungo comunque che, se questo è l'effetto, vale la pena invitarli più spesso i politici: una volta Renzi e rifacciamo la pavimentazione; una volta, che ne so, la Boldrini e sistemiamo gli intonaci; poi sotto con Grasso e via di questo passo: gli edifici restano perle d'arredo urbano e i locali sempre sbiancati di fresco.

È stato bello anche attendere trepidanti in aula magna che arrivasse il Renzi: brusii, chiacchiere, tweet. La solita e sempre interessante fenomenologia di chi sta in piedi "in corridoio", in apparenza lì per caso, a conversare leggiadro come a un high tea, ferocemente in vista. Tanti colleghi, tanti politici, molte uniformi, carabinieri in divisa di gala con un pennacchio così bello da fare vacillare anche un obiettore come me!

Poi arriva il presidente e noi di CF partiamo con gli effetti speciali: giù le luci e show di muscoli multimediali con video a tutto schermo, Carmina burana ad alto volume in una lingua che non ho capito ma di grande effetto, immagini oleografiche di una Venezia visivamente rapitrice e sotto-titoli che, appunto, sotto-lineano i "1000 follower", i "10000 studenti", i "100000 metri quadri", i "1000000 di euro investiti"... Eddai che scherzo, non mi prendete alle lettera, serve per dare l'idea!

Effetti speciali, Rettore, Brugnaro, Donazzan... noi si ballava sui tavoli con Renzi in platea!
Adesso, per due righe, smetto di scherzare: veramente sembravamo una super-potenza accademica e sentivo l'orgoglio istituzionale di aver contribuito un cin a fare un campus di paurosa bellezza. Harvard, MIT, Sorbonne e atenei foresti tutti: mangiate pure la nostra polvere! "Il futuro è qui!", come recita il titolo di chiusura del video. Poi parlano il rettore Bugliesi, discorso bene in campana; si passa la parola alla Donazzan che m'impressiona positivamente perché evita la polemica leghista e le riesce pure di usare con deliziosa ironia l'aggettivo "sereno", che resterà per sempre renzianamente appropriato; poi anche Brugnaro si difende con onore parlando a braccio e, pure a lui, mi tocca obtorto collo dargli dei punti dato che assolve il ruolo con la professionalità degna della fascia di sindaco che indossa.

Poi, Renzi: parla bene, camicia bianca d'ordinanza e tenue tocco di colore con cravatta celeste, eye contact. Dice molte cose, dice che è stato sindaco anche lui e che "il governo farà la sua parte", Brugnaro chiama l'applauso che la platea concede. Dice che "bisogna fare uscire l'università dal perimetro della pubblica amministrazione": bello, brutto o speriamo ben?  E poi, perché "il perimetro"? Hai qualcosa contro "l'area della pubblica amministrazione"? Scusate, fisima matematica! Dice tante cose, le dice bene, le dice con energia, in fondo suona la carica per tutti e dice che ascolteranno le voci che vorranno interloquire e poi faranno quello che c'è da fare (ahi, ahi... vedo la sinistra PD in un nuovo incubo!)
Tutto curato, il centrotavola pare un merletto di Burano!

Ok, la festa è finita. Mentre Renzi va in visita io passo per l'ufficio e preparo con cura l'imboscata al buffet (mise en place curata, camerieri in gran tiro giacca nera elegante, cibo bello da vedere ma, come dire, etereo al punto che devo fare parecchi giri).

Ripenso al titolo del post:  non mi deludere ancora, presidente, non finirmi nella discarica della storia come un Nixon qualsiasi...

BEC: un fior di biblioteca (source)

Sunday, September 13, 2015

Masaccio o "memoria corta"

Chi siamo dipende anche da chi eravamo e questo dipende da quel che sai o vuoi o puoi ricordare. Per carattere sarei generalmente un magna-e-desmentega perfetto: mi dimentico tonnellate di roba senza remore e senza paura, e lo faccio pure con malcelato orgoglio: mi dico che dimentico le monate per fare spazio alle cose importanti, così resto a fuoco su quelle. Mah, a volte mi pare che mi dimentico e basta. Certo, ci sono anche cose, eventi, persone che ricordo a ferro e fuoco per decenni ma sono eccezioni, specie di simboli, memento mori e milestones simbolici da usare nei momenti di bisogno, per ispirarmi o ispirare. Cose simpatiche come ``quello è una carogna sempre e comunque, in secula seculorum'' o successi privati o pubblici che uso come antidoto a puntate per i veleni che t'intossicano di tanto in tanto. Ma sto divagando, non che sia una novità in questo blog...

C'è anche una memoria più profonda e che sento più veneta, quella che ci consente di tenere traccia di quello che siamo perché sappiamo quello che abbiamo fatto.  Ecco, di questa memoria ne vedo poca. Lo vedo su di me: fra poco arrivo al mezzo secolo di vita e so poco e forse ricordo ancora meno di quel che è accaduto qualche decennio fa nel lembo di terra che mi circonda, di quando il tempo e la storia si devono essere attorcigliati in una smorfia di disumanità e ferocia senza eguali. Mi rendo conto che so poco o nulla di pagine della resistenza che, forse, dovrei conoscere per capire quello che sono e quanta strada il mio piccolo mondo veneto abbia fatto da allora.

Questa storia è un cerchio di 20 km, in linea d'aria non mi sono allontanato mai più di 5-6 km da casa. È un viaggio in macchina con papà, il mio usb di riserva per quel che riguarda la memoria, in un pomeriggio di mezzo agosto.

A Castello di Godego in località Cacciatora c'è un monumento che ricorda le 73 persone massacrate il 29 aprile 1945 da un reparto di nazisti che affannosamente remavano verso nord per scappare ad americani ed inglesi che li braccavano. Questi 73, ho pensato, sono le Fosse Ardeatine de noantri e io, che potrei sembrare uno di cultura, quasi nemmeno sapevo dov'era la Cacciatora. 73 persone, fra cui bambini e donne, sparati alla nuca e abbandonati in un campo non si sa bene perché (ammesso e non concesso che una ``provocazione'' di qualche mona potesse giustificare alcunché).
Stele con nomi ed età degli assassinati.
Guardando la lapide sono rimasto sbigottito a diversi livelli ma ciò su cui mi soffermo ora è la domanda ``Ma come facevo a non sapere?'' Ok, forse semplicemente non ricordavo ma cambia poco: come czzrla fai/facciamo a non ``ricordare'' cose così? Ma dai, che ce le ricordiamo: ogni 29 aprile c'è la commemorazione...  Sarà, ma mi sembrano quelle commemorazioni che a noi giovani cinquantenni scarsi (notate l'ossimoro, please) sembrano cose vecchie e ininfluenti.

Stele della Cacciatora, in memorie delle 73 vittime, e attività produttive sullo sfondo.

Luogo dove stava prima il monumento, ora spostato più in là su via XXIX aprile. È ancora ben visibile lo spiazzo guarnito dai cipressi.
Mi fa anche effetto constatare che abbiano spostato la stele da dov'era, in prossimità di un incrocio, per evitare ``problemi al traffico'' sulla Statale che va a Bassano. Poco male, mica è una mancanza di rispetto spostare il ricordo di 73 morti di 50 metri per far scorrere il traffico senza intoppi e senza pericoli. Ma perché mi rimbomba in testa un ``O no?'' impietoso e ghignante? È stranamente evocativa anche la nuova posizione, appunto solo 50 metri più in là su Via XXIX aprile. Faccio qualche foto e per quanto ci provi non riesco a togliere dall'inquadratura un capannone e una villetta. Forse non serve che lo espliciti ma, mentre riempivo la card d'immagini, questo capannone e villetta si trasfiguravano in simboli della nostra memoria corta e di quanto siamo cambiati dal '45 ad oggi. Villette, capannoni, traffico fluido, capannoni, villette... Non so se era quello il mondo che volevano nel '45 anche se mi guardo seriamente dal pensare che schiene rotte, ignoranza e pellagra siano meglio di capannoni e villette.

Proseguiamo lungo la XXIX aprile prima e Via Montegrappa dopo, girando a Ramon per andare quasi lungo il Muson a Case Piotto a vedere il cippo che ricorda la morte di Primo Visentin ``Masaccio''. Era comandante della Brigata Martiri del Grappa, ucciso il 29 aprile del 1945 in circostanze che solo ora possiamo accettare: quasi certamente gli sparò alle spalle un tale Andreetta, partigiano discutibile e gran fiol di buona donna che ne aveva fatte di cotte e crude. Avete notato che la data è ancora 29 aprile? Beh, è una coincidenza, in quei giorni succedeva di tutto e il fatto che i luoghi distino 4-5 km è un caso. È forse meno casuale che un Masaccio morto fosse un ostacolo in meno alla transizione soft che alcune forze politiche desideravano alla fine del conflitto. Mica si può andare avanti con questo clima d'odio per sempre? Credo che ci sia anche saggezza nel lasciarsi alle spalle qualcosa: diciamo che si tratta di limitare scientificamente la memoria ma come corollario, mi dicono, c'è stato anche quello di rivedere troppa gentaglia compromessa col fascismo nelle istituzioni del dopoguerra.

Chi ne vuol sapere di più e di meglio (io faccio lo storico da osteria solo nelle domeniche nuvolose per scaricare l'ansia da prestazione accademica) può leggere Ceccato, ``La morte del comandante partigiano Masaccio: delitto senza castigo'' e anche questo articolo, scritto prima che io nascessi da uno che conosco.
Cippo in memoria di Masaccio a Case Piotto.
Il girotondo fra le strade di casa volge al termine, Da Loria scendiamo verso Riese ma in corrispondenza della zona industriale e della ex-FOVEN pieghiamo per Via Brigata Martiri del Grappa per andare a vedere la tomba di Masaccio nel cimitero di Poggiana di Riese, frazione natale di papà. Mentre per qualche strano caso il cippo lo avevo già visitato qualche anno fa, la tomba non l'avevo ancora mai vista (48 anni, 3 km da casa mia, il blog contiene Sydney nel nome: bizzarrie turistiche di noi polentoni). Sulla lapide leggo una poesia, custodita in una specie di scatola di plexigas per salvarla dalla pioggia, appoggiata a un masso perché resti verticale. E la smemoratezza di questi tempi incerti e arricchiti torna a farsi sentire:

Ma qua me vardo intòrno
e libero a me mente,
dei tosi del Vial nò ghe' nteressa gnente,
ai morti soto i rovi,
i ga cambia camixa,
comanda sempre lori

Ma caro comandante no i gò
desmentegai que attimi de gloria,
de miseria tanti, xa pasai,
quei giorni in cui se jera
imbriaghi sensa paura dea gaera,
de tanti sogni de strana libertà,
dell'illusion de far na nova era,
mentre se jera dentro
a storia vera

Te asso qua sto sasso
e so che nol fiorisse.
Ghe sarà sempre un osto,
un prete, un fiol de troia
pronto a mandarte in scena
e quando no te servi
spararte drio a schena
Parchè par tutto el mondo
chi che fa pì paura
xe quei coe scarpe grose
e anca a testa dura

Ma caro comandante
A cossa xe servio, na lapide sol muro,
o un gran eroe morto,
se no ghe xe futuro
Ma posso dir na roba,
a chi che passa e resta,
a chi serca na facia sincera,
a raixa xe ancora qua,
tra i crepi de sta tera.

Ho trascritto il testo così come sta e ho pensato che era giusto ricordarlo nel blog, sperando che internet sia eterna e che i dischi rigidi abbiano maggiore durata di quel che ci resta impresso dopo pochi decenni di tempo, preoccupazioni, lavoro, amori... Penso che sia una bella poesia, una cosa che più che capirla bisogna sentirla (grazie Marta): menziona il tradimento, il Viale dei Martiri a Bassano, la gaera in cui adesso ci tocca mettere quelli del MOSE che pure sono figli di quelli che morivano al posto loro nei rastrellamenti, e molto altro.
La poesia a Masaccio sulla sua lapide a Poggiana di Riese Pio X.

Papà e sullo sfondo la tomba di Primo Visentin, "Masaccio".
La Classe A percorre il pezzettino di strada che mi separa da casa e apprezzo il cambio automatico che mi consente di non muovermi nemmeno per scalare o accelerare, sono in una specie di (tranquilla) trance, vagamente stranito da quello che ho visto, rivisto o intuito in questa particola di pianura veneta.

Mi riprometto di ricordare di più, altro schema ricorrente e inutile del mio modo di pensare e chiudere i conti. So che non lo farò e so pure che abbiamo dei conti aperti con la memoria in famiglia, non me la prendo. Ma di colpo le targhe stradali mi soccorrono beffarde: ho girovagato in via XXIX aprile, Via Montegrappa, Via Masaccio e preso Via Brigata Martiri del Grappa. Finché non cambiamo i nomi alle vie, sono grato alla toponomastica che ricorda molto più di me!




Monday, September 07, 2015

Nonlinear constraints with a modified constrOptim

I often use constrOptim to quickly solve nonlinear optimization problems. constrOptim works well as a general tool to tackle constrained problems like
\[
\min_{Ax -b \geq0} f(x)
\] 
There are many other options and packages for specific problems but constrOptim is likely to be the first choice when little is known on the problem at hand or for exploratory/quick-and-dirty analysis.

The main problem I have with it is the nature of the constraints: they must be linear (written in matrix form as \(Ax-b≥ 0\)). Often I would like to compute (local) solutions of more general problems of the form
\[
\min_{g(x) -b \geq0} f(x)
\] 
where g(x) takes vector values, one component for each scalar constraint, and is in general nonlinear, i.e., \(g(x)\) cannot be written as \(Ax\).

Hence, I tweaked the code of constrOptim replacing all the occurrences of the linear constraints with my "new" non linear constraints. (In order to do that, I had to discard the chance to use "BFGS" as a solving method, for now...)  The result is a function, called constrOptimNL, see the code below, which can handle non linear constraints if a vector function g(x) and b are provided. All the drawbacks of the old function are inherited, that's life, but now non linear problems can be solved as shown by the following simple but non entirely trivial example in two dimensions.
 f <- function(x,y) x^2*y+x-x*y  
 fb <- function(x) f(x[1],x[2]) #vectorial version of f  
 x <- seq(0,3,length=31)  
 y <- seq(0,3,length=31)  
 z <- outer(x,y,f)  
 #draws a graph  
 image(x,y,z);contour(x,y,z,add=T)  
 polygon(c(0,0,3),c(0,3,0),col="white",density=20)  
Heatmap and contour lines of the objective function, the feasible domain is filled in white.

Consider the constraints \(x\geq0,y\geq 1, x+y\leq 3\), the feasible domain is a triangle with vertices (0,0), (0,3), (3,0): due to linearity, the problem can be solved with

 A <- matrix(c(1,0,-1,0,1,-1),3,2)  
 b <- c(0,1,-3)  
 res <- constrOptim(c(0.5,1.5),fb,NULL,A,b)  
 res
$par
[1] 0.2792393 2.7207607
$value
[1] -0.2683538
$counts
function gradient
246 NA 
...

The same problems can be solved with constrOptimNL, which trivially can handle linear constraints as well:
 g <- function(x,y) c(x,y,-x-y)  
 gb <- function(x) g(x[1],x[2])  
 source("constrOptimNL.R")  
 resNL <- constrOptimNL(c(0.5,1.5),fb,NULL,gb,b)  
 resNL
$par
[1] 0.2792393 2.7207607
$value
[1] -0.2683538
$counts
function gradient
246 NA
... 

Assume now that some non linear constraint is involved in the optimization problem: \(x\geq0,y\geq1,(x-1)^2+(y-1)^2\leq1\), the feasible domain is now the upper half-circle centered at (1,1) with unit radius. This problem has nonlinearities in the constraints and cannot be solved with the standard constrOptim.
 g <- function(x,y) c(x,y,-(x-1)^2-(y-1)^2)  
 b <- c(0,1,-1)  
 resNL <- constrOptimNL(c(0.5,1.5),fb,NULL,gb,b)  
 resNL$par  
[1] 0.2649931 1.6780596 

A graph shows that this is indeed the correct solution:
 alpha <- seq(0,pi,len=31)  
 image(x,y,z); contour(x,y,z,add=T)  
 polygon(cos(alpha)+1,sin(alpha)+1,col="white",density=20) #draws the half-circle  
 points(resNL$par[1],resNL$par[2])  
Contour levels and a nonlinear feasible domain in white (the solution is plotted with a filled circle).

You can check the solution more formally substituting the nonlinear constraint in polar coordinates, \(x=\cos\alpha+1,y=\sin\alpha+1\):
 f2 <- function(alpha) f(cos(alpha)+1,sin(alpha)+1)  
 curve(f2,0,pi)  
 sol <- optimize(f2,c(0,3))  
 points(sol$minimum,sol$objective)  
 c(cos(sol$minimum)+1,sin(sol$minimum)+1)  
 #"same" as resNL  

Objective function restricted to the half-circle

The code

The code for constrOptimNL is given below (in this version the parameter grad is kept for compatibility with constrOptim but will never be used: Nelder-Mead and SANN are derivatives free and invoking BFGS stops the function). Hope this helps.
 constrOptimNL <- function (theta, f, grad, g, ci, mu = 1e-04, control = list(),   
   method = if (is.null(grad)) "Nelder-Mead" else "BFGS", outer.iterations = 100,   
   outer.eps = 1e-05, ..., hessian = FALSE)   
 {  
   if(method=="BFGS") stop("method BFGS not available, use Nelder-Mead or SANN")  
   if(!is.null(control$fnscale) && control$fnscale < 0)   
     mu <- -mu  
   R <- function(theta, theta.old, ...) {  
     ui.theta <- g(theta,...)  
     gi <- ui.theta - ci  
     if (any(gi < 0))   
       return(NaN)  
     gi.old <- g(theta.old,...) - ci  
     bar <- sum(gi.old * log(gi) - ui.theta)  
     if (!is.finite(bar))   
       bar <- -Inf  
     f(theta, ...) - mu * bar  
   }  
   dR <- function(theta, theta.old, ...) {  
     ui.theta <- g(theta,...)  
     gi <- drop(ui.theta - ci)  
     gi.old <- drop(g(theta.old,...) - ci)  
     dbar <- colSums(ui * gi.old/gi - ui)  
     grad(theta, ...) - mu * dbar  
   }  
   if (any(g(theta,...) - ci <= 0))   
     stop("initial value is not in the interior of the feasible region")  
   obj <- f(theta, ...)  
   r <- R(theta, theta, ...)  
   fun <- function(theta, ...) R(theta, theta.old, ...)  
   gradient <- if (method == "SANN") {  
     if (missing(grad))   
       NULL  
     else grad  
   }  
   else function(theta,...) dR(theta, theta.old, ...)  
   totCounts <- 0  
   s.mu <- sign(mu)  
   for (i in seq_len(outer.iterations)) {  
     obj.old <- obj  
     r.old <- r  
     theta.old <- theta  
     a <- optim(theta.old, fun, gradient, control = control,   
       method = method, hessian = hessian, ...)  
     r <- a$value  
     if (is.finite(r) && is.finite(r.old) && abs(r - r.old) <   
       (0.001 + abs(r)) * outer.eps)   
       break  
     theta <- a$par  
     totCounts <- totCounts + a$counts  
     obj <- f(theta, ...)  
     if (s.mu * obj > s.mu * obj.old)   
       break  
   }  
   if (i == outer.iterations) {  
     a$convergence <- 7  
     a$message <- gettext("Barrier algorithm ran out of iterations and did not converge")  
   }  
   if (mu > 0 && obj > obj.old) {  
     a$convergence <- 11  
     a$message <- gettextf("Objective function increased at outer iteration %d",   
       i)  
   }  
   if (mu < 0 && obj < obj.old) {  
     a$convergence <- 11  
     a$message <- gettextf("Objective function decreased at outer iteration %d",   
       i)  
   }  
   a$outer.iterations <- i  
   a$counts <- totCounts  
   a$barrier.value <- a$value  
   a$value <- f(a$par, ...)  
   a$barrier.value <- a$barrier.value - a$value  
   a  
 }  

Thursday, August 27, 2015

Giob market

L'università è un'istituzione, bzzz..., fondata sul lavoro. L'università riconosce a tutti bzzz bzzz il diritto al lavoro e promuove... bzzz creeeck bizzzbziiizzzzz...

Non si capisce un granché, la linea è disturbata e a un certo punto sembrava che leggessero la costituzione di un ateneo. Mah. Provo a reagire alla sensazione, percepita troppo spesso di recente, che l'unico job market sia quello a stelle e strisce.  Su questo tema sono disponibili strepitosi elenchi di suggerimenti: uno l'ha prodotto Loriana, una collega che ho quasi eletto a modello esistenziale tanto è venerabile, brava, frizzante e capace di lavorare come una ruspa. Un altro lo trovate qui, a cura di Peter Iliev, leggete entrambi, non possono fare male. Ma oggi vi parlo del giob market,  quello dei poveri, e proverò a sfatare la leggenda che l'unico job per cui vale la pena vivere sia americano e che, al contrario, i giob che trovate da noi siano brutti, sporchi e cattivi.

Il giob market italiano è l'insieme delle opportunità di lavoro post dottorato offerte dai circa 90 istituti universitari della penisola.  90 "atenei" non sono pochi, alcuni sono di prim'ordine, alcuni sono sotto casa, in tutte le sedi trovate facilmente pasta, olio d'oliva e pomodori (la triade che denota alta qualità della vita, credeteci o meno!). Il problema è che i bandi non sono pubblicati in un sito centralizzato e bisogna cercarseli col sudore della fronte in 90 siti web, stando attenti a non perdere scadenze ravvicinate e a rispettare norme burocratiche diverse da sede a sede.

Cercarsi un lavoro non implica necessariamente andare a Chicago, Boston o San Francisco in Gennaio, a spese proprie, e fare molte interviste sperando di vincere prestigiosi fly-outs (biglietto pagato per andare a fare un seminario presso la sede che vi sta esaminando).

Cercarsi un lavoro significa anche affinare la nobile arte di scandagliare i siti coi bandi per assegni di ricerca (il nome è lassativo, lo so, specie se confrontato con figate come post-doc o financo tenured). Una differenza c'è: i contratti che puoi vincere là sono spesso pluriennali (3 o 5 anni) mentre qua se va bene vinci un contratto annuale rinnovabile per un altro anno. Poi tocca partecipare ad altri bandi.

Per fare un'intervista quà o là è meglio essere preparati, capaci nell'arte della sintesi, eye-contact (quella roba per cui guardate chi vi ascolta/vi parla e non le slides; normale, a casa e al bar lo fate sempre), saper descrivere il vostro lavoro e contestualizzarlo nella letteratura, sorridere il giusto senza strafare ed evitare di indisporre l'interlocutore, avere l'ascella e l'alito in ordine...

Rileggete le frasi precedenti: grondano di un'ovvietà veramente indecente.  In cosa il vostro comportamento in USA (interview) dovrebbe differire da quello che tenete di fronte a una commissione per un assegno (colloquio)? Se fate schifo, sembrerà che anche la vostra ricerca sia debole, a meno che un interviewer/commissario non dica frasi come "ma i paper sono meglio..."; se siete stati bravi e charmant, anche la vostra ricerca sembrerà più interessante, anche se c'è sempre quello che dice "si, la racconta bene ma i lavori sono troppo semplici/complessi/generali/dettagliati..."

Tutta l'enfasi che vedo sul job market mi sembra a volte un modo viscidamente subliminale per dire che solo lavorare là ha senso: ha certamente molto senso vincere un posto per 5 anni a NYU, UCLA, Yale e altri posti simili; ne ha forse meno vincerlo in oneste istituzioni di media classifica sperse nelle steppe del Tennessee (o altro stato a caso); ha anche parecchio senso vincere un assegno di ricerca nel giob market italiano e andare in un ateneo nazionale, dove magari lavorano persone civili, che pubblicano, che sono state in giro per il mondo più di molti americani. O no? Quello che ha pochissimo senso è andare svaccati e impreparati all'interview o colloquio che sia, mostrando da un lato o dall'altro dell'oceano la vostra parte peggiore, disorganizzata e maleodorante.

Sottolineo qualche altra cosa, spesso spezzatino di vita vissuta:
  • Il job market paper è frequentemente il centro dell'interview e quindi dovrebbe essere bello e anche fotomodello e lo dovete conoscere bene. Sento dire che dovrebbe essere a un nome solo e, possibilmente, di prossima pubblicazione su rivista A+. Essere l'unico autore semplifica le cose ma non sono certo che sia indispensabile in una scienza che ormai vede quasi sempre team di molte persone lavorare insieme. Di sicuro, un solo nome aiuta ad evitare che vi dicano che è merito del coautore... ma se ve lo dicono forse vi avrebbero detto qualcos'altro anche se il paper fosse stato a un nome solo.
    Ho sempre faticato a capire come un interviewer, che vede anche una dozzina di candidati bravi in un giorno, possa capire al volo se un working paper finirà su JET o Econometrica, tritacarne con tassi di accettazione sotto il 10%. Certo, ci sono interviewer bravi ma sono scommesse e se c'imbroccano è una mandrakata!
    Eppoi, lasciate che lo scriva, mi sta sulle balle questo modello "gallina dall'uovo d'oro": l'idea che assumi la gallina perché sganci l'uovo proprio nel tuo pollaio nei 3 anni in cui ci sta, sento un cattivo odore (di schito di gallina, in Veneto). Anche perché se ti hanno assunto come ovaiola/o e per qualche motivo tu non fai l'uovo A+ nei tempi prescritti, coerentemente ti danno un calcio in culo, baby. È questo l'ateneo in cui volete lavorare? Anche si, se è NYU, UCLA, Yale e così via; ma l'idea vi dovrebbe piacere meno in generale. Ci sono atenei, anche italiani, che non trattano la gente come galline estrogenate e, talvolta, attendono che uno maturi e dia qualche frutto a suo tempo.
  • Al tipico colloquio italiota la commissione guarda anche altre cose. Di sicuro le guardo io. È incomparabilmente meglio se i giob market papers che allegate alla domanda in Italia (notate il plurale) sono già pubblicati formalmente. La legge prescrive di valutare le pubblicazioni e i titoli, non il potenziale delle uova non ancora deposte. Alla fine si stila un punteggio in cui si prendono tanti punti per ciascuna pubblicazione, ripeto pubblicazione, non idee brillanti vergate su promettenti working papers.
    È raro presentarsi con pubblicazioni già stampate di livello A+ o anche A o B. Ma qualche pubblicazione formale su rivista scientifica, anche medio-bassa, anche su libro editato, anche su atti di convegno aiuta la commissione a darvi dei punti. Se uno presenta solo working papers, anche molto promettenti, finisce spesso malino.
    Osservate che non ho detto che bastano paper mediocri per avere il posto e se un candidato ha pubblicazioni migliori vi scavalca, ovvio. Sto cercando di dire che, IMHO, serve un portafogli di cose (un paper su rivista, un articolo su volume, due working papers) che mostri alla commissione che avete valore e prospettive; che avete già fatto qualcosa; e che gli consenta di darvi i punti per farvi arrivare primi nella graduatoria finale.
  • Volendo si potrebbe discutere di quale sistema sia meglio (do per assodato che gli stipendi in USA sono meglio dei nostri... è come sparare sulle croce rossa). È meglio assumere uno con un working paper buono o uno con tre giob-pubblicazioni già stampate? Ditemelo voi: capirei sia l'azzardo di prendersi il primo che la comparsa di un articolo del sempre-sia-lodato G. A. Stella: tiro ad indovinare il titolo, "Commissione prende un bociassa senza pubblicazioni al posto di trentaduenne con 3 articoli su rivista e 4 assegni già vinti". Poco importa se gli articoli fanno schifo, il pezzo di Stella mostra come nessuna alternativa domini l'altra in alcun modo sensato.
  • Il giob market italiano ed europeo è meno rutilante di Chicago sotto il gelo, è più faticoso e precario. Andare all'estero è cosa buona e giusta e si guadagna di più. Ma vale la pena riflettere, siamo economisti e ci sono costi fissi e sunk cost emotivi, familiari e personali. Se siete come Tex Willer, che dorme nella prateria in posti sempre diversi, girate pure il mondo; ma non siete obbligati mandare in vacca la vostra vita se non siete adatti a fare il globetrotter (perché vi mancano amici, famiglia, amore, pasta, olio, pomodoro...)
    Mi sento una vecchia ciabatta intessuta di risorgimentale romanticismo ma lasciate che vi ricordi che potreste anche lavorare nel vostro paese e migliorarlo: avremo anche pasta, olio, pomodoro e molto altro ma non ci mancano di sicuro le occasioni per  contrastare mostruosità e vizi tipici del Bel Paese. Ricordo infine che molti fra gli italiani che lavorano all'estero mi fanno tenerezza per quanto soffrono e desiderano di tornarsene a casa loro: tu pensi che siano super-fighi e loro si consumano tristemente nella nostalgia...
Concludo con un GANTT diagram (maronna, ormai parlo come loro!) che mostra che i brutti tempi di adesso non siano diversi da quello che succedeva una decina e rotti d'anni fa. Lo dico per tirare su di morale e dissipare l'idea che questi sono i tempi più bui che la storia accademica ricordi. Nota metodologica: sono dati relativi a uno che conosco (sample size = 1), un tizio inaffidabile con gli occhiali neri che scrive pure post strani in un blog sottosopra.

Anno 0: laurea nel nord-est
Anno 1: supplenza in un liceo del nord-est
Anno 2: vince borsa di dottorato (fieramente segato in quattro concorsi, vinto il quinto)
Anno 2-4: PhD nel nord-est
Anno 5: all'ISTAT per un anno, sede regionale nel nord-est,  nonostante le pressioni per stare in università senza stipendio ad aspettare ("Ma che male può farmi un anno all'ISTAT? Vi saluto!'')
Anno 6: ricercatore nel nord-est

A conti fatti, posto fisso a 31 anni; poi, associato a 37; nel doman non c'è certezza e la speranza è l'ultima morire ;-)

Sunday, August 23, 2015

Pandelleria

Arrivo. Chiedo al finanziere con la massima cortesia possibile se si può vedere l'hangar di Nervi. Mi dice di no, "grazie", silenzio, ridico "grazie", mi attendo un "prego", silenzio di nuovo.

Alfredo arriva con più di mezz'ora di ritardo a prenderci, aveva capito che arrivavamo via nave (da Treviso in effetti non è semplice...). Dobbiamo attendere un'oretta prima che ci diano il dammuso alle 9.30, gli domando di portarci a fare colazione "Da Katia", pasticceria numero uno su tripadvisor. Ci porta "Da  Giovanni", subito penso che è un ben strano tipo ma nel tempo questo microscopico bar in Piazza Cavour, a fianco del municipio, si dimostrerà una delle pietre angolari del nostro soggiorno pantesco. Una meraviglia di baci, brioches, cornetti, cannoli "riempiti" sempre al volo da signore toste che ormai ci sorridono, tante sono le volte in cui abbiamo fatto tappa là.

Bouganville, vento, sole, strade strette che non ci passano due macchine e in certi casi anche una fatica a destreggiarsi fra muretti di solidi mattoni di pietra lavica. Facciamo un detour a vedere il Lago di Venere, infangarsi qui sembra un obbligo cui io e Cesira ci sottraiamo senza gran rimpianti.

Dammuso. Ci accolgie Leo(nardo), architetto bresciano a Pantelleria da molti anni, con cacioeta d'ordinanza, ci fa vedere le stanze di questa casa rustica, con la biancheria d'epoca un po' ingiallita e il pavimento di mattonelle grezze. Subito qualche dubbio ci viene, più che altro pensando al prezzo dell'affitto per una settimana e alla sua maglietta "fruit of the loom" alquanto sdrucita (con coerenza inflessibile, porterà questa o una identica tutte le volte che lo abbiamo visto). Poi ci abituiamo: è un bel dammuso, forse bellissimo, coi fiori e la piscina, una vista a ovest che spazia su un mare rapitore. Tira il solito bel vento, maestrale in certi giorni e scirocco in altri, che aiuta a resistere sotto un sole gagliardo. Siamo non lontani dall'aeroporto e vediamo passare, tavolta in atterraggio talaltra in decollo a seconda del vento, 4-5 apparecchi al giorno.


Panda. La viabilità in quest'isola è quel che è, non attendetevi 4 corsie e nemmeno 2 a dir la verità. Quindi, in Panda veritas. Non so perché le Pande vadano per la maggiore, a rigore potrebbero bastare anche anche auto piccole. Che ne so? Le 500, le Nissan, qualche Corsa o Renault o Punto di piccolo calibro. Ma non c'è storia: a parte eccezioni, Pande a non finire. Le usano i locali, modelli vecchi spigolosi e nuovi più tondeggianti; le danno a noi turisti, spesso di un gialletto che ben s'intona col colore di secco e l'ocra delle case; passano ovunque, si insinuano nei piccoli allargamenti stradali che servono per dare via a chi viene nella direzione opposta. Mi fanno ricordare, con qualche ben più che ventennale fierezza, la mia Panda rossa, prima autovettura su cui ho messo le amni da neopatentato.

Back to basics. L'idea in fondo me la da il ristorante "Al Tramonto" di Scauri, secondo centro abitato dell'isola con le sue 8 case, chiesa e farmacia. Mi servono una fetta di pane coi capperi. "Pane coi capperi"? Mi scatta la molla della semplicità alimentare estrema, cosa tutt'altro che sconosciuta anche in Veneto. E vai con pane e capperi, con qualche insalatiera ricolma di pomodori rossi rossi da sembrare troppo maturi ma in realtà duri e gustosi. Mi dicono che crescono senz'acqua, ci aggiungo qualche fetta di melanzana locale scottata in padella. A un certo punto scopro pure il frutto del cappero, una specie di grande cappero evoluto e succulento, sempre pane a volontà. Sarà semplice finchè vi pare ma questa è bella vita, culinariamente parlando. Sarà semplice ma mi ricordo mentre addento che ingredienti buoni rendono quasi superfluo l'atto del cucinare. Leo ci aveva dato, come segno d'accoglienza, un vassoio di pomodori, patate e zucchine pantesche: roba buona e molto molto gradita.

Back to basics sembra anche un modo per riassumere quest'isola vulcanicamente potente e arabeggiante: vento, sole, mare, capperi, luce f22. Tutto è forte, senza mezzi toni, il resto è spazzato via. Mi pare una buona metafora di molto altro e vi risparmio i dettagli.

Varie. Col vino ci è andata male, in un certo senso. A parte la bottiglia presa al ristorante, zibibbo secco Basile di ottima qualità, gli altri due acquisti della MInardi sanno nettamente di tappo. Una volta può capitare. Due no, ti e i to morti cani!

Il terreno è ricoperto di sbusottini, nomignolo affibiato a dei semi aguzzi con pungiglioni, sparsi a centinaia da un'infestante che pavimenta vaste zone del giardino. Camminare scalzo è una cosa da fachiri e antitetanica. Siete avvisati, questi cosetti rischiano perfino di bucare le havaianas, una suola di gomma è una polizza (Valpiave!) sulla vita.


Non è l'unica cosa tagliente dell'isola. Senza nemmeno scivolare Cesira si apre per buoni 20 cm lo stinco su una pietra a Gadir. Non le fa nemmeno tanto male ma è una ferita visivamente da paura e andiamo in pronto soccorso a Pantelleria. Qualche punto, qualche graffettina e il bendaggio mettono tutto a posto (ma niente bagni da quel momento in poi, senza per altro che fosse semplice andare a mare qui, tutti scogli e nessuna spiaggia). L'ospedale mi fa simpatia: aria lievemente condizionata, una signora in camice sta pulendo le finestre, tutto brilla e odora di spic e span, w la sanità pubblica!

Libri. Mai avrei pensato di trovare "Se questo è un uomo" di Primo Levi un libro quasi ironico. Spero di non suonare offensivo ma al di là di ciò che racconta ci sono una visione tersa e un rigore scientifico in quel che dice che mi hanno lasciato dentro una geometrica limpidezza di spirito.  Ci sono perfino parti in cui spiega con chiarezza abbagliante l'economia del lager, come se fosse una cosa normale. Mi spingo a citare qualche frase.
  • Il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli; 
  • Con l'assurda precisione a cui avremo più tardi dovuto abituarci, i tedeschi fecero l'appello; 
  • Nessuno può vantarsi di comprendere i tedeschi. 
Slegate dal contesto sembrano riflessioni sulla crisi economica europea e sulla traballante politica della grande Germania... Ho anche letto "Stoner" di John Williams (grazie Anna!), è un bel libro, intenso e screziato: a pagina 225 leggo che "L'amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un'altra".

Wednesday, August 05, 2015

Resistere, resistere, resistere

Tanto per iniziare, mi ricordo che il titolo andrebbe applicato a questo post che forse non era da scrivere.  Non ho le idee chiare né forse è possibile averle su un tema come questo.  Ma sono numerosi i casi in cui le idee si affinano se provi a dipanarle e qualche passaggio pur fumoso e indistinto magari aiuta a snebbiarsi.

Nell'anno di grazia 2015 scoccano i 100 anni dall'inizio della grande guerra e i 70 dalla fine del secondo conflitto mondiale.  Una cosa, forse, non c'entra con l'altra ma vivo in una regione che ha lo strambo privilegio di avere sperimentato fatti ed eventi non marginali di ambedue i periodi, trasudiamo di "della battaglia", tanto per dare un'idea, e monti, valli e pedemontane rimbombano di storie, lapidi, fantasmi e ricordi; il Piave dove "non passa lo straniero" scorre in posti vicini a mezza della mia famiglia; il massiccio del Grappa, quello della Brigata Martiri, dalle mie parti non lo vedi solo quando piove o c'è foschia da afa prolungata.  È la mia montagna, il posto dove vado, solo là, quando ho voglia di camminare tre ore.  Da tempo pensavo che mi sarebbe piaciuto capirci di più e due casi serendipitosi mi hanno dato l'occasione di mettere giù due pensieri per i quattro lettori.  Il primo è lo spumeggiante pezzo di Wu Ming 1, "Cent'anni a nordest'", da invito a cena! Ho visto che ora ci ha cavato un libro ma a me sono bastati e avanzati i tre interventi su "Internazionale" per liberare microsismi di curiosità e desiderio di sintesi.  Poi c'è stato Aldo Cazzullo e la "Biblioteca della resistenza" sul Corriere.  È già sparita dalle edicole (perché?), ma la ritrovate su http://www.corriere.it/iniziative/bibliotecadellaresistenza/piano.html.  Io mi sono preso Fenoglio, Vittorini, Calvino, Meneghello, Bocca e Tobino.


Come vedete, ho fatto una scelta e ho tralasciato la prima guerra mondiale, pazienza.  Per oggi ragiono, parola grossa, su quel che è stata la Resistenza, con la "R" maiuscola, per quel che ho letto in questi 6 libri.  Scrivo di questa cosa su cui si fonda la nostra repubblica, su cui sono vagamente ancorate le mie radici cultural-politiche e su cui si accapigliano a distanza di 7 decenni ad ogni 25 Aprile proprio quelli che non c'erano e forse ne han letto molto meno di libri.  Stop.  Niente cazzate sui libri e sulla realtà, ormai le memorie sono svaporate, andate con quelli che sono partiti per la montagna e con quelli (pochi) che hanno ammesso di essersi vestiti di nero.  Non ce ne sono più, ci restano solo i libri e la consapevolezza che gli scrittori bravi sono quelli col dono di dirti chi sei meglio di quel che hai capito da solo.


Fenoglio mi racconta una storia bellissima e fou di questo partigiano eroso dal bisogno di sapere se la sua bella l'ha tradito.  Ho pensato che non gli bastava il casino che c'era intorno, in un Piemonte dove si sono massacrati cupamente, ci voleva pure uno sbrego nel cuore.  Che cosa ne può venire fuori se non una sofferenza indicibile e il tentativo riuscito di farsi ammazzare, non si sa bene se per l'Italia che verrà o per il dubbio di avere perso l'amore della vita?  Per certi versi le due cose mi sembrano anche metaforicamente vicine: deve egualmente aver poco senso amare Fulvia in un paese violentato dai fascisti o vivere in un Italia finalmente libera senza di lei...

Del libro mi sono rimasti la bellezza della scrittura, la disperazione tesa in cui vivevano tutti, la violenza affiorante nell'uso di fucilare i prigionieri da ambo le parti se entro un giorno non si trovava un compagno con cui fare uno scambio.  Lo ripeto: l'unico modo in cui un fascista o partigiano catturato dall'altra parte durava più di 24 ore era quando veniva scambiato con un altro tizio che, simmetricamente, era stato catturato dagli altri.  A meno di una botta di culo (ma veloce!), pallottola nella nuca. Dura vendetta sarà del partigian, ormai sicura è la dura sorte, del fascista vile e traditor.  Punto.

Lo stesso delirio di sofferenza personale, stavolta intarsiata di lotta urbana milanese e gappista, è in Vittorini.  Con molto rispetto: due maroni di libro, ho detto "molto rispetto" ma non so che farci.  Ho faticato a sopportare le pagine, mi toccava leggere veloce le parti di asfissiante agonia umana, fra cani che sbranano i prigionieri, amori complicati da morire, voglia di suicidarsi.  Poche lame di luce e tanta sofferenza in quelli che la vulgata vuole si siano battuti (radiosi?)  per la nostra libertà e il sol dell'avvenir.  Ho quasi pensato che gli storici hanno fatto bene a stendere un pietoso velo su tanta assassina disumanità, da una parte e dall'altra: non si può, forse non si deve, continuare ad essere precisi su certe cose.  È l'unico modo, diluire e sfocare, in cui almeno si coltiva la speranza che la brace si spenga sotto la cenere, col tempo e gli anni.  Lo scrivo ma non lo penso del tutto: mezzo cuore e mezzo cervello pensano che a stendere veli si peggiorano solamente le cose, capire e conoscere sono forse le uniche dolorose vie per chiudere i conti, dato che il tempo chiude solo le ferite purulente a furia di generazioni (e neanche sempre).

Calvino ha il dono della parola e mi sono gustato l'insensatezza di vedere le cose con gli occhi del Pin, il bambino cresciuto in fretta che ci svela quanto noi grandi siamo sia idioti che condannati a fare quel che "serviva".

Meneghello finalmente mi ha elevato lo spirito raccontando con garbo e poesia la "mia" resistenza, nel bellunese, sull'altipiano di Asiago e a Padova, con la mia lingua mentale e brandelli di dialetto.  Cosa ci ho capito?  Poco, ma era il poco giusto, quello in cui ethos non si sa che cosa vuol dire perché non si può tradurre in Veneto.  Quel poco forse è tutto quel che c'è da capire: a volte due partigiani e due fascisti non si sparavano quando s'incontravano in un sentiero, forse fingendo di essere coppie di amici che vanno a funghi (con lo Sten a tracolla?  Magari andavano a osei...)  Nel libro manca la violenza esibita e diretta e anche l'agonia interna delle persone.  O meglio, te la puoi immaginare se leggi in obliquo che c'erano rastrellamenti un mese si e uno no, con gli Ucraini "specialisti in partigiani" (e gran figli delle loro grandi madri, ndr); se pensi al viale dei Martiri di Bassano, un "bandito" appeso per ogni albero; o se ripercorri l'episodio della Valsugana in cui i partigiani hanno impiccato a dei ganci due tedeschi nello stesso palo dove due giorni prima gli altri avevano lasciato penzolare due ribelli.  La simbologia conta eccome, anche dove l'ethos non attacca per niente.

I dettagli non ci sono mai e il testo è intriso dell'autoironia di questo piccolo maestro andato in montagna dove ha combattuto, si è salvato e se l'è presa fissa sui denti.  Democristiani (da noi) e comunisti (altrove) erano molto meglio organizzati di quelle anime belle di azionisti.  A fine guerra, gli altri li hanno ciucciati e sputati come ossi.  Ecco, questa è una domanda che mi è rimasta?  Perché la parte migliore della resistenza ha fatto quella fine là mentre gli altri si sono presi parlamento, paese e onori?  Non lo so proprio ed è una delle cose più dolorose, dato che se resistere in quel modo aveva un senso, allora sarebbe dovuta andare diversamente alla fine.  Lo stesso schiaffo ti arriva sul muso con Tobino che racconta la storia di tre amici diversi e il Togliatti lapidario di: "Anche un cavallo di razza può avere due pidocchi sulla criniera'".  Turri (Aldo Cucchi) ammazza quasi 2000 persone a Bologna col settimo GAP (saranno anche stati fasci ma è un carnaio...) e poi si prende del pidocchio per aver detto giustamente al capo che era tutto cueo e braga con Stalin.  Bella fine, proprio bella.

"Partigiani della montagna" di Giorgio Bocca è una cronaca secca della resistenza nel cuneese, al confine con la Francia.  Bocca non la manda a dire, non li chiama nemmeno fascisti o repubblichini: basta "briganti neri" a fare capire che secondo lui i morti sono, sì, morti da ambo le parti ma conta ciò che han fatto da vivi.  Gli uni contro e gli altri insieme ai demoni aizzati da Hitler.  In questi giorni, per altri motivi, ho avuto a che fare con la frase di Forrest Gump: "Stupid is who stupid does", che più o meno significa "sei stupido se ti comporti da stupido".  Potrei sottilizzare e dire che uno può anche fare lo stupido senza esserlo ma nel contesto di questo post sarebbero pippe cerebrali.  Sei un assassino se ti comporti come un'assassino?  Sparare alla nuca a un tizio in camicia nera che cammina sotto un portico di Bologna o appendere a un gancio un tedesco a caso recuperato in uno Strigno a caso cos'è realmente?  Ed è diverso da fare sbranare un antifascista da un cane rabbioso o impiccarlo con una gamba in cancrena dopo settimane di torture?  Dove sta la differenza fra essere un assassino e comportarsi come tale?  Non ho gran risposte né sono in grado di dare gran fondamento alle mie tesi, con o senza sei libri dietro di me.  Vedo la nemesi beffarda: "Prof., ho studiato tanto ma so pochino..."

Forse "resistere" significa opporsi al male, evidentemente lo si può fare con onore o rasentando l'infamia.  Evidentemente lo si può fare sempre, nelle piccole come nelle grandi cose.  Ho concluso, vale per i prossimi tre minuti ma non è poco, che opporsi a un mare di fango raramente lascia immacolata la giacca di lino bianca e il Panama indossati dal ribelle chic.  È molto più facile uscirne invece lordi di fango, schizzi e sangue.

Dopo questo frasone è meglio avviarsi verso la fine del post più sgangherato che il blog ricordi (ma da quando faccio lo storico, sociologo e il politico?  Torna ai tuoi conti, fa el bravo...)  Lo faccio coi ringraziamenti a un paio di persone:

  • ad Alessandro per avermi convinto a leggere Pansa, non c'è Bocca senza Pansa, no?  Lo hai definito "onesto intellettualmente" mentre io ricordavo solo carriolate di insulti feroci da parte dei "miei" critici di sinistra.  L'ho letto, forse bisogna leggerlo, forse non cambia nulla o forse si.  Sono onorato di poterne discutere con te;
  •  a Papà per avermi raccontato di Primo Visentin "Masaccio", comandante della "Martiri del Grappa", della sua forza interiore e del suo rigore senza macchia e senza paura, delle sue burle travestito da suora, del ponte di Bassano che salta in aria, delle sue immersioni nel luamaro per fregare i cani da fiuto dei tedeschi.  Grazie anche per avermi da sempre detto che non lo hanno ammazzato i Tedeschi con un tiro che avrebbe del miracoloso dal municipio di Loria ma che ci ha rimesso la vita il 29 Aprile, ben oltre i supplementari, colpito alle spalle da uno che aveva fatto troppe sporcherie con la camicia dei partigiani e che sapeva bene che avrebbe fatto i conti col comandante.  Il resto a un altro post...
  • grazie Luciana, per avermi raccontato che a Lentiai i partigiani li indicavano a dito (anzi con due dita) come banditi, gente che faceva i prepotenti col fucile e affamava i poveri cani.  Nonno Bortolo, veterano artificiere d'Africa, quasi non rivolse più la parola al fratello perché era andà in montagna.  Se la verità sta in qualche via di mezzo quello che dici tu (e Pansa) bilancia i molti casi in cui la gente i partigiani ha protetti come figli e quasi eletti a eroi; 
  • A Francesco Saverio Borrelli,  cui debbo il titolo del post.  È un esempio di come si può stare con la schiena dritta e di come, in questo paese, ci sia sempre il bisogno di opporsi ai ducetti di turno.


    Beppe Fenoglio, "Una questione privata"
    Elio Vittorini, "Uomini e no"
    Italo Calvino, "Il sentiero dei nidi di ragno"
    Mario Tobino, "Tre amici"
    Giorgio Bocca,"Partigiani della montagna"
    Luigi Meneghello, "I piccoli maestri"
    I lettori attenti avranno notato che i conti non li faccio mica tanto bene: intanto i libri sono 7 con l'aggiunta di Giampaolo Pansa, "La sporca guerra dei partigiani e dei fascisti". Poi di persone ne ringrazio 4 e non 2, meglio così.
    In un certo senso tutto è iniziato con Wu Ming 1 e lo strepitoso "Cent'anni a nordest" in cui si parla di tante cose. Mi sono chiesto chi sono i Veneti (cioè chi sono io!) e se Cecco Beppe fosse fra i miei miti:
        Me nono Cecco Beppe faceva l'aviatore
        Mancanza di benzina pisciava nel motore
        Mancanza di bombette tirava scoreggette
        Mancanza di siluri tirava stronzi duri
    Sono filastrocche per scandalizzare i bambini ma, no, Cecco Beppe non era e non è nel cuore di tutti noi Veneti!