Thursday, December 21, 2017

Solstizio d'inverno

Se fossi un americano sarei uscito con lo scatolone sotto il braccio, con gli effetti personali che ti porti a casa dall'ufficio quando lasci il lavoro.  Invece ho con me una borsa di stoffa con qualche fascio di carte e piccoli memorabilia come un poster del decennale della Ca' Foscari Harvard Summer School.

È stato un pomeriggio speziato in cui all'inizio ho patito un po' la stretta dell'ultimo giorno e le sensazioni strane da apnea di futuro.  Poi mi sono ripreso, mi sono messo a guardare e buttare fogliacci di appunti e ciarpame assortito, ho firmato gli ultimi decreti, facendo il punto con Anna.  E a poco a poco, ho ritrovato il ritmo e il beat della School of International Education, dove per 28 mesi abbiamo messo in cantiere cose di cui vado fiero.  In ordine sparso: i corsi di Academic Lecturing con Camel, Ada, Elena e perfino Paola; SeiXSIE su Scarpa alla guida di un commovente e lirico Guido, corsi di scrittura creativa, mindfulness con Franco, giornalismo, web, design thinking, competenze trasversali; corsi di italiano di varia foggia e livello, serali, con le strategie d'apprendimento, visite a musei; Marco Poli con cinesi spaesati e ``muti''; programmi estivi, con o senza appendici leisure, per cinesi di Souzhou e Jilin, coreani di INHA da Incheon e chi più ne ha più ne metta; scuole estive con alcune fra le perle della Ivy League come Harvard e Columbia; Math1B con 50 ore di Robin e la potenza tutoriale di Molly; scuola di orientamento; corsi curricolari in inglese con le nuove Contemporary history of Venice di Gilda e History of Italian Design di Martino, teacher ``free-style'' a detta degli studenti; tutti e due hanno fatto il primo corso in inglese della loro vita; inizieranno a breve anche i corsi di comunicazione interculturale e i rapporti fra Venezia e l'Oriente, prime assolute nella nostra offerta; e poi Utrecht, Joroon, Enrico e Paolo mi ricordano le cose che ci son andate storte, tanto per non farci sentire onnipotenti.

È un lungo elenco, non me lo toglie nessuno, e allo stesso modo mi resta la sommessa e potente soddisfazione di aver conosciuto e spesso raccolto buoni frutti dal lavoro di colleghi e amministrativi.  L'aver rischiato e scommesso sul loro talento ha fatto crescere me e tutti noi.  Forse non saprei fare il lavoro in altro modo, "All men choose the path they walk". Credo sia andata bene così.



C'è una parte di me che, in riferimento a certa parva gens, altolocata e proterva, continuerebbe con altre citazioni sanguigne. Non è il caso di riesumare l'anatema di Fausto Tonna, ma una scoperta recente è appropriata: ``The end comes no matter what, the only thing that matters is how do you wanna go out, on your feet or on your knees?  I bring that lesson to this job.  I act, knowing that someday this job will end, no matter what'' (da ``The Kingdom'', citazione completa e video).

Resisto alla tentazione e decido di nutrire il lupo compassionevole e pacifico che è in me e non la belva feroce e vendicativa che pure mi appartiene (il riferimento, se volete è nel video in fondo). Mi tengo i momenti belli, la lucidità e il senso istituzionale che vola alto come colomba; mi resta in mente la forza maori, bionda e ``unstoppable'' dei collaboratori; metto via persone, volti, sorrisi dolci e musi lunghi, studenti stanchi e studenti contenti, impegno, fatica...  me ne ricorderò.  Il tempo è passato veloce e leggero, anche in mezzo agli inevitabili colpi di ventura.  Che la forza SIE con voi!

Non sono un americano con lo scatolone ma alle 17.30 sono sul ponte di S. Sebastiano, pestando sulle gambe per vedere Luca in treno, con la mia borsa e i miei cimeli.  È il giorno più buio dell'anno, lo si potrebbe anche prendere per un cattivo presagio.  Respiro profondamente l'aria, tanto fredda e affilata stasera quanto morbido e luminoso era stato il pomeriggio al mio arrivo nel giardino del convento.  Solstizio d'inverno: forse invece è il giorno giusto, perché da oggi la luce riprende a poco a poco il sopravvento.

Thursday, October 19, 2017

TEDxPaolop

Montello. Domenica 15, the day after, parto alle 14.04, per prendermi scientificamente le ore più calde del giorno, 25 gradi fra le 14.00 e le 16.00.  Pedalo immergendomi in questo sole morbido e diagonale, nell'aria tiepida e avvolgente.  Mi dimentico la borraccia a casa e solo dopo l'incrocio di Giavera, quando mi trovo a mormorare "è uno spettacolo", realizzo che sto assaporando la bocca secca, deglutisco con fatica ma penso che il corpo ricorda la desertificazione papillare che ho avuto durante e dopo lo speech al TED.

Procedo con regolarità massima, 200 pedalate al minuto, alla fine né farò 20000, assieme a 3500 respiri, un bel mantra uno dietro all'altro.  Per il TED ho ripetuto il discorso (almeno) 22 volte, ogni mattina e ogni sera negli ultimi 11 giorni.  Luca ha fatto di meglio: timer ogni due ore negli ultimi giorni.  Potenza dell'allenamento che serve sia quando si parla in pubblico che quando si va in bici, è tutto facile, mi godo il percorso benchmark, la mia razione di sopravvivenza ciclistica, un su e giù fatto centinaia di volte in cui pompo aria nei polmoni e sgombro lentamente la mente concentrandomi sul respiro.  Un Ashtanga su due ruote: un'ora e 5 minuti per arrivare in cima vuoto e poi 4 minuti di rilassamento in discesa, lo si fa per questo no?


Pennac. È forse famoso per la serie di Malaussene ma non ricordo nemmeno bene quelli che ho letto, forse "La fata Carabina".  Ma lui ha scritto due libri che resistono dentro di me da decenni.  Il primo è una storia per bambini da 8 a 88 anni, "L'occhio del lupo".  Anche i lupi hanno un grande anima e ci sono motivi se la nostra cagnolina si chiama Pailette.  Ma oggi parlo di "Diario di scuola" in cui Pennac racconta, fra l'altro, che faceva imparare i testi a memoria.  Ecco alcune delle sue parole:
E perché non imparare questi testi a memoria?  In nome di che cosa non appropriarsi della letteratura?  Forse perché non si fa più da tanto tempo?  Vorremmo lasciare volar via pagine simili come foglie morte solo perché non è più stagione?  È davvero auspicabile non trattenere simili incontri?  Se questi testi fossero persone, se queste pagine eccezionali avessero volti, dimensioni, una voce, un sorriso, un profumo, non passeremmo il resto della vita a morderci le mani per averli lasciati scappare via?  Perché condannarci a conservarne solo una traccia che sbiadirà fino a essere solo il ricordo di una traccia...
Pennac faceva imparare ai suoi allievi brani celebri e potenti in modo che, per sempre, i suoi studenti potessero avere munizioni su cui ragionare e sparare senza pietà durante conversazioni varie e dispute.  O anche solo per "rimorchiare ragazze"!  Per anni ho pensato che non fosse possibile e non mi riferisco al fatto che la memorizzazione è demonizzata da quando io avevo 10 anni.  È che non credevo proprio che si potesse memorizzare un testo lungo.  Invece il mio discorso al TED l'ho mandato a memoria: 8200 caratteri, 1260 parole, fra 8 e 9 minuti per dirlo.  Certo: dozzine di prove e affinamenti ma da ora so che impossible is nothing e Pennac aveva ragione!


Ora so anche che i grandi speaker non hanno il dono di andare a braccio, ho capito che quella naturalezza, quell'argomentare serrato e travolgente, quella scioltezza disarmante non viene improvvisando e pensando alle battute cammin facendo.  È tutta gente, se conoscete eccezioni ditemelo please, che si è smazzata ore e ore di prove, memorizzando passaggi, snodi, modulazione di voce, cariche e ritirate.  Sono debitore a Francesca di avermi convinto che non c'era altro modo di essere naturale.  Mi ha detto che se il discorso è tuo, se ce l'hai dentro e lo domini, poi te lo godi: in un certo senso, aveva ragione.

Pressione. Luca ha parlato di sensori che misurano in tempo reale pressione arteriosa, battito e altro.  Non credevo che il palco dell'Accademico fosse questa cosa qua, ma salire su un palco è semplicemente devastante.  Non ho mai provato prima una sensazione simile.  "Devastante" vuol dire tante cose e per me significa (anche) memorabile, impressionante, emozionante e sconvolgente.  Si può pensare che dopo mezzo secolo di vita io sappia parlare in pubblico.  Beh, forse.  Ma il mio pubblico non è quello di un teatro meraviglioso; il mio parlare è diverso, meno teatrale appunto, più allungato e didattico, pieno d'incisi e ripetizioni per conficcare concetti nelle menti.  Qui no, al TED è diverso.

Primo, non si vedono facce, parli a un muro nero coi fari negli occhi e l'eye-contact te lo immagini solamente.  Poi, gli 8 minuti volano, le ripetizioni sono escluse, gli errori anche, tutto deve filare dalla prima all'ultima parola.  Terzo, quelli prima di te sono stati bravissimi, ci sono mamma e papà in platea, ti s'impasta la lingua, "ma dove sono capitato?".  Elisabetta ha detto che il teatro è una realtà aumentata: sembra paradossale, il palco era di semplicità zen, quasi glabro, eppure è vero e pare di vivere due vite in un colpo solo.  Ed è terrificante sentire il pubblico celato dietro il muro nero, respirare e quasi mugghiare a ritmo col discorso, ridere alle battute, sciabordare come una marea in certi passaggi riusciti.

Proprio dopo una battuta, stento a riprendere il filo perché non mi aspettavo la reazione divertita della sala.  Esitazione, non so se lunga o corta ma a me pare una vita, respiro, non mi viene in mente nulla, ri-respiro (forse).  Poi riesco a dire una frase abbastanza del menga ma riparto.  Da quel momento ho la sensazione di volare forse perché sentivo di averla scampata e di non aver più nulla da perdere, via fino in fondo senza prendere prigionieri e benedicendo la memorizzazione del testo.

Non auguro a nessuno quell'esitazione, per un po' mi pareva di essere in un universo nero parallelo, non saprei come dirlo altrimenti.  E da ora in poi non crederò più, come per altro da sempre fanno i buoni detective, ai testimoni oculari.  Io stesso, che non solo c'ero ma addirittura ero in azione, non saprei dire che cosa ho fatto o quanto è durato.  I testimoni, adesso lo so, raccontano non quel che è successo ma quel che gli è rimasto impigliato fra sensazioni e ricordi a cavallo fra il reale e l'autoindotto.


Team. La forza dei ragazzi del team è stata contagiosa.  La loro capacità di essere presenti, sorridenti, carichi come pallettoni e in grado di sprigionare scintille positive continue, è stata trascinante.  Giulia si è presa cura di me con discrezione avvolgente, precisione, umanità.  Mi sono sentito da subito in una botte di ferro.  Namaste, veramente!

Ho anche capito quanto le compagne/i degli speaker abbiano contribuito alla nostra preparazione.  Cesira, ormai sa il discorso a memoria quanto me, ma è stato commovente vedere che tutte/i si sono sorbiti patemi e recitazioni per giorni.  E poi dicono che non c'è dialogo nelle coppie!  Ora che ci penso è un dialogo per modo di dire con uno che dice sempre le stesse cose e l'altro che corregge le minuzie, fiscale come la finanza...


Energia. Diversi colleghi speaker mi hanno scaldato con l'emozione del "nucleo", di loro adesso mi fiderei ciecamente, mi hanno "aperto finestre sul mondo", di sicuro gli interventi hanno dato nuova linfa alla palude stagnante dei pensieri, non temo più la strana coppia di un cane e di un uomo, ho capito che con un po' di fortuna un asteroide non mi colpirà...  Spero di non fare torti a nessuno ma Luca ha raccontato una storia di magnitudo, vibrante e bellissima e io non resisto a signore bionde che dicono, citando George Steiner, "Siamo monadi perseguitate dal desiderio di comunione" (come in Pennac o nel "Postino di Neruda" certe frasi poetiche rimorchiano alla grande!)


A proposito di energia, alcuni pezzi del discorso hanno emozionato i matematici presenti in sala, più d'uno.  Un ragazzo mi ha inseguito mentre andavo alla macchina per complimentarsi e ci siamo subito intesi sulla regina delle scienze e sulla bellezza di fare didattica.  Frequenta il secondo anno a Padova e gli sono grato per avermi fatto il pieno per i momenti di carestia affettiva e quelli in cui la matematica a Economia e Management sembra la figlia della serva.  Queste persone mi hanno ricordato quanto io senta ancora quella sensazione di capire i matematici e di essere capiti a una profondità che è preclusa ai non matematici.  Ad esempio, mi fanno enorme simpatia gli ingegneri che mi hanno contattato dopo lo speech, li sento vicini, abbiamo parlato addirittura di controlli lineari, raggiungibilità, sistemi embedded, perfino Laplace e poli.  Ma c'è una affinità viscerale coi matematici, e solo con loro, che è indelebilmente incisa nel pericardio.  È il "richiamo della foresta" di noi matematici ululanti alla luna.

È la seconda volta che cito i lupi e forse è il momento buono per mettere in cassaforte questo strepitoso ed emozionante TEDxPaolop.

Monday, October 16, 2017

La matematica ai tempi di Facebook

Questo è, parola più parola meno, il mio intervento al TEDxCastelfranco del 14 ottobre 2017.

La tecnologia può sostituire la presenza dei docenti nella scuola?  E quanto internet e i social networks possono cambiare il modo tradizionale di insegnare e di apprendere?

Vi vorrei raccontare una storia iniziata sei anni fa, la storia di un corso in cui Facebook per la prima volta è stato usato come supporto alle lezioni universitarie.  Vi racconterò com'è andata e dell'enorme intensità che si è sprigionata in classe e online.

Poi mi soffermerò su una indagine più rigorosa, meno legata all'adrenalina del momento, in cui abbiamo analizzato scientificamente gli effetti di questo strumento, provando ad essere lucidi e forse cinici.

Infine, mi piacerebbe condividere con voi alcune conclusioni su questo viaggio e magari trarre qualche spunto legato ai possibili usi di internet, sulla scuola di domani e se sia veramente possibile fare a meno dei docenti e della scuola che tutti abbiamo conosciuto.

Sono un matematico e mi piace fare didattica e provo a convincere i miei studenti spesso con l'uso del computer, quanto la matematica illumini il mondo con applicazioni pratiche e con la sua bellezza immortale.  Poco più di 6 anni fa entro in una classe con oltre 400 studenti di primo anno.  400 sono tanti, sono più di tutti gli spettatori dell'Accademico, non riuscivo a vederli in faccia, erano troppi.  Fra me e me pensavo che era impossibile fare lezione in questo modo.  in realtà, ero infuriato anche con il mio ateneo che mi obbligava fare lezione in queste condizioni.  Come si fa a insegnare qualcosa a questa marea di persone?  Come si fa a seguirli, Conoscerli, guidarli?  Come si fa a capire se hanno capito?

Mi sono detto che serviva uno scatto, un supplemento d'anima, cercavo un modo di parlare a centinaia di studenti, i miei studenti, senza poterlo fare in classe.  E mi venne in mente Facebook.  Il più famoso social network al mondo, pensai, può forse essere usato per discutere problemi, esercizi e fare domande.  Non era semplice: come sapete Facebook è tradizionalmente legato a un uso personale e raramente ci si pensa come se fosse uno strumento di studio e lavoro.  Nel mio caso bisognava fare di necessità virtù: bisognava usare Facebook per parlare di cose serie e aiutarsi a colmare l'impossibilità di comunicare in modi tradizionale con diverse centinaia di persone.  Vedete la pagina che ho creato alle mie spalle, si chiamava Matemates.



Dopo qualche giorno di cautela reciproca con pochi post, gli studenti hanno iniziato a scrivere qualche breve pezzo e a mettere qualche like.  io rispondevo più velocemente che potevo e continuavo ad esortarli in classe ad usare la rete per rendere sensato e proficuo un corso così stracolmo.  A poco a poco, i post aumentavano, sempre più, sempre più velocemente.  E io sotto con le risposte, i contro-like, le amicizie.  A un certo punto il ruscello di post è diventato un fiume e poi un'inondazione.  Mia moglie a un certo punto mi disse che ero fuori di testa, ringhiava ``Paolo, non puoi stare su Facebook tutto il giorno''.  In effetti non ce l'avrei fatta ma la cosa bella era che gli studenti ormai iniziavano a rispondersi fra di loro.  E, in secondo luogo, arrivarono Alessandra e Maryna a rispondere a tutti.  Il loro aiuto e la loro dedizione sono state fondamentali.  Avevano caratteri diversi: Alessandra si materializzò come un personaggio dei manga giapponesi che ama così tanto, velocissima, tecnica, asciutta, rispondeva a decine di domande, secca, precisa.  Maryna era anche più filosofica ed empatica, dava risposte condite di commenti più personali e ironici.  A un certo punto l'intera classe si rese conto che quello che stava succedendo era qualcosa di speciale, di noi parlò un blog definendoci "una tribù'' e chiamandoci ``quelli di Facebook''.  In questo delirio di Facebook, teoremi, esercizi, post finimmo sul Corriere del Veneto, sul Gazzettino e sui media locali.  Gli studenti erano gasati e convinti che Facebook gli avrebbe dato due o tre punti in più all'esame finale e i primi dati sembravano confermare la loro impressione.  Ero gasato anche io e nel mio piccolo mi pareva di avere fatto la storia.



Ma adesso fermiamoci un attimo.  Dopo questa euforia cominciai a chiedermi che cosa fosse successo, intendo che cosa fosse successo veramente.  Sono uno scienziato e so quanto sia difficile provare la presenza di cause ed effetti.  Per fare un esempio, prendete gruppo di persone con l'influenza e dategli un bicchiere di acqua fresca ogni mattina e sera e basta.  Dopo una settimana metà di loro sarà guarito.  Potete concludere che l'acqua fresca cura l'influenza?  Ovviamente no, sappiamo che non è così e infatti metà di loro sarebbe guarita comunque anche senza acqua e anche, a dir la verità, senza niente.  Allo stesso modo, come potevo sapere se Facebook aveva migliorato la performance dei miei studenti?  Magari erano bravi di suo, magari ero stato largo di manica nei voti, magari l'aria della città di Treviso è più buona di quella di Venezia...  Come si fa a sapere se una cosa ha effetti?  Nella scienza si fa un epserimento con un gruppo di controllo.  Noi non ce l'avevamo ma ci venne l'idea di confrontare rigorosamente i cosiddetti studenti di Facebook con quelli cui s'insegnava lo stesso corso senza Facebook.  Per 4 anni abbiamo raccolto dati per valutare le abilità degli studenti, attendendo che finissero la carriera universitaria per escludere che i buoni risultati fossero dovuti, per puro caso, a un gruppo di studenti straordinari.  Abbiamo perfino controllato la qualità di tutte le scuole superiori da cui provenivano e ci siamo creati un gruppo di controllo formato dagli studenti dei corsi paralleli.  Nuovamente, una studentessa speciale mi è venuta in aiuto.  Shira a quel tempo era una dottoranda della Bocconi e lei mi aiutò a setaccìare senza sosta dati e matricole per distinguere e capire se c'erano differenze fra ``quelli di Facebook'' e gli altri.  Da scienziati eravamo entrati nella modalità ``Caccia a Ottobre Rosso''.  Vi ricordate del film in cui gli americani cercano di beccare il sottomarino russo nascosto negli abissi e comandato da Sean Connery? Noi volevamo, come in quel caso, catturare l'effetto di Facebook che era nascosto e si era immerso in un oceano di potenziali altre spiegazioni.  Ad ogni controllo, l'effetto di Facebook scendeva e scendeva: prima tre punti su 30, poi due punti, poi 1, poi 0.75 e avanti, limatura dopo limatura, alla fine siamo arrivati a mezzo punto.



Ecco siamo ormai arrivati all'epilogo di questa storia: quanto vale Facebook?  Intendo, quanto vale dopo che hai lavato via l'euforia, il divertimento e tenuto conto della bravura degli studenti, della qualità del loro diploma, e del mio contributo come docente.  Ecco, quanto vale?  Mezzo punto!

È poco?  È tanto?  Ok, lo lascio decidere a voi ma a me pare poco.  Da un lato lavoriamo duro proprio per ottenere piccoli miglioramenti e mezzo punto è proprio questo, un piccolo miglioramento.  Ma è forse poca cosa, ti accorgi appena di mezzo trentesimo anche se è distribuito su tutti i 400 studenti della classe.

Se ci pensate forse la cosa è anche ragionevole.  Forse eravamo matti a pensare che internet avrebbe cambiato tutto, sconvolgendo il modo di imparare.  Forse è ovvio che studiare costa fatica, che non ci sono scorciatoie, che le sudate carte non te le cava nessuno.  Che servono ore sui libri.  Forse servono buoni docenti, gente che ti guarda negli occhi e ti rispiega se capisce dal tuo sguardo che non hai capito.  Di quei professori, di quelli bravi, ne abbiamo avuti tutti.  In qualche caso ci hanno veramente salvato la vita.  Forse era ingenuo pensare che Facebook o un altro social network o la rete ci avrebbe reso geni a colpi di post e di like.  Pensiamoci la prossima volta che all'ennesima riforma della scuola non si parla altro che di lavagne interattive, LIM, di ipad e di smart phone, Ricordiamoci magari che servono anche docenti in gamba, impegno e buone strutture.  E internet?  Sì, sì, serve anche internet!  Fa bene e diverte sia noi adulti che voi nativi digitali.

Ma a conti fatti, alla fine della fiera le persone sono importanti e internet conta solo mezzo punto!

Grazie!

Tuesday, August 22, 2017

Monte Grappa downunder

Strisce di muscoli mi bruciano ancora forte e chiaro, è una cosa superficiale ma quadricipiti e tibiali sottocute sono ancora in fiamme a distanza di due giorni pieni.  È merito del sentiero 106 da Cima Grappa al Santuario della Madonna del Covolo. Venerdi 18 agosto sono ritornato in Grappa, dopo che ci ero stato in notturna il mercoledì precedente. Non mi capita spesso di andare su e giù per il Grappa, che pure è forse l'unica montagna nota e amica, ma avevo un compagno d'eccezione e ho fatto discesa e salita con Andrew, un trentenne australiano incontrato la sera prima.

In questo piccolo mondo capita che Cesira, mentre attendiamo un tavolo all'aperto alla Piola, si sente chiedere ``Hiccups, eh?  Did you drink too much?''  Pardon?  Andrew aveva scambiato i suoi singhiozzi liberatori, quelli che dissolvono a volte mal di testa latenti, per i postumi di una birra.  È un inizio e alla fine chiacchieriamo tutta la sera, lui ordina una seconda birra mentre noi finiamo la pizza e di ciacola in ciacola veniamo a sapere che è di Brisbane, è stato nell'Australian Army per 5 anni e che poi ha lavorato in servizi di security in Afganistan, anche per la sua ambasciata, e altrove.  Non immaginatevi Rambo, tutt'altro: di media statura, compatto e di carnagione chiara tendente al pel-di-carota, parla un inglese facile da capire (cosa non sempre scontata per un Aussie), è reduce da 35 giorni di cammino di Santiago, da Roncisvalle a Finisterre, inserendolo in un viaggio di 3 mesi circa in Europa.  Gli chiediamo come mai è a Treviso e ci dice che, proprio sul cammino, ha conosciuto tante persone e amici di Motta di Livenza e Udine lo hanno invitato dalle nostre parti.  Detto, fatto: dal Queensland a Treviso-Motta via Santiago, non è la prima volta che osservo che le varie walks of life seguono percorsi non geodetici, arabescando uomini, paesi ed esperienze in modi non lineari e degni di nota.  Andrew clearly "got the action, he got the motion".  Questo, poi è un blog figlio del continente giusto, Sydney nel nome, viaggi e lontananze-vicinanze fisiche e mentali nelle storie e nelle assonanze (e per altro il Grappa è già entrato in queste pagine, lettore compulsivo sei avvisato!)

Il punto è che il Grappa lo tira fuori lui, "vorrei andarci, ho sentito parlare del monumento ai caduti, ma non ci si riesce con l'autobus..."  È appena stato a vedere Villers-Bretonneux (credo) dove stanno migliaia di suoi connazionali, mandati sotto comando inglese a morire per gli stessi motivi che anche da queste parti hanno generato migliaia di caduti.  Taglio i dettagli, ci fa (tanta) simpatia questo ex-militare fresco di Kabul, con la leggenda dell'ANZAC e Gallipoli nel cuore, sobrio e apparentemente senza coltello fra i denti, che ci parla della necessità di ricordare e che ha letto del Monte Grappa e del suo sacrario.  Penso che, in effetti, andare in Grappa in autobus non si può e, in ogni caso, ci si impiegherebbe un tempo così lungo che tanto vale andarci a piedi...

Cesira mi sorprende, non sempre dà confidenza agli sconosciuti, specie se le fanno notare il singhiozzo, e propone di offrirgli un passaggio all'indomani fino all'attacco del sentiero 151 di S. Liberale.  Detto, fatto.  Ci salutiamo con l'appuntamento per le 9.00 del mattino dopo, il piano è di scarrozzarlo e di lasciarlo andare su da solo lasciando che si trovi in autonomia un modo (non ovvio) per tornare a Treviso.  La notte porta consiglio e alla fine decido che posso fare andata e ritorno con lui, conosco il sentiero 151 come le mie tasche e mi rendo conto che per prendere la corriera MOM (Mobilità di Marca) delle 17.15 da Crespano del Grappa a Castelfranco serve metodo e organizzazione.  Inoltre non salgo in cima di giorno da tanto tempo e, fresco visitatore di Redipuglia, rivedere l'ossario m'incuriosisce specie in compagnia di un ex-fante del Commonwealth.

Partiamo alle 10.20, su per ``Plan of the Ball'' lungo quel bel serpentone di sassi bianchi, piccole pause per bere, banana, foto, in una giornata sfolgorante.  Facciamo, come da tradizione una pausa e selfie a Pian dea Baea e poi via per l'ultimo tratto verso la cima che raggiungiamo alle 12.22 e dove  non manca un discreto traffico di turisti venuti su in macchina, moto, pullman.  Come gli avevo raccontato speranzoso anche la galleria Vittorio Emanuele è aperta e per la prima volta posso visitare il tunnel, di recente restauro, scavato sotto la cresta sommitale dal febbraio al giugno del 1918.  Il manufatto è impressionante: una lunghissima galleria, con sotto-gallerie che portano a quaterne di nidi di mitragliatrici o postazioni di calibro 75.  Tutto è ben curato e riporta, a distanza di quasi un secolo, a quei tempi umidi e bui, dove i soldati come talpe hanno combattuto rintanati per mesi.



Usciamo alla luce del sole e ci dirigiamo all'Ossario, "Gloria a voi soldati del Grappa": cimitero italiano con circa 13000 morti; cimitero austriaco, altri 12000 a sancire quasi un pareggio che, a me pare, mostra come in un certo senso non ha vinto nessuno (sì, sì lo so, abbiamo vinto noi, ci mancherebbe, è dai tempi di Pirro che uno vince e uno perde senza che sia chiarissimo a nessuno dei due chi sia arrivato primo...).



Percorriamo la via Eroica, gli racconto quel che so, e torniamo al rifugio.  Vedo che Andrew fa delle fotografie in cui inquadra un braccialetto nero.  Mi dirà poi, mentre stiamo mangiando un piatto di pasta prima di spararci la discesa, che porta con sé il ricordo di un compagno d'armi, morto in un conflitto a fuoco in Afganistan, prova a nutrirne il ricordo mentre visita questi incredibili posti di memoria, orrore e valore.
Through these fields of destruction
Baptisms of fire
I've witnessed your suffering
As the battle raged higher
And though they did hurt me so bad
In the fear and alarm
You did not desert me
My brothers in arms 
Dire Straites, "Brothers in arms"

Tornando a toni più lievi, sapevo che per prendere la corriera bisognava scendere celermente da un altro sentiero e opto per il 106 che percorre una valle che sbocca a Crespano del Grappa.  Non lo facevo da anni anche perché si tratta di un sentiero ripido che non a caso è denominato "la direttissima".  Sì, in vari tratti il 106 è solo un'idea: una linea molto dritta fra il punto A (Malga Ardosetta) e B (Covolo), una vera e propria stambeccata in mezzo a boschi ameni con la luce che filtra a macchie di leopardo e in cui spesso viene voglia di usare anche le mani perché non è semplice muoversi su simili pendenze stando in piedi.  Se mi volete ascoltare, è già duro in discesa e consiglio di non farlo in salita o forse provate solo se avete cattiveria, polmoni e gambe da vendere.  D'altro canto, proprio perché il 106 è "direttissimo" e altimetricamente spietato, si rotola giù presto e in un'ora e quaranta siano al Covolo.  Andrew scende con le sue scarpette da ginnastica (o almeno sembrano tali) mentre io, come un dinosauro, in montagna continuo ad andare con lo scarpone da trekking che erano in auge una trentina d'anni fa (alla fine metterò il culo a terra una sola volta e già ridevo prima ancora di aver toccato il suolo, di solito è buon segno!)
La vista da "El balcon", 1265 m, lungo la direttissima  106.
Abbiamo un'ora per raggiungere il centro di Crespano e scendiamo nuovamente dritti come fusi lungo la Via Crucis asfaltata che dal centro porta al Covolo.  È un'altra strada di pendenza accentuata, come sanno tutti i ciclisti che una volta o l'altra nella vita hanno sacramentato cercando per puro orgoglio di raggiungere il santuario.  Tagliamo a sinistra e arriviamo al piazzale dell'autostazione, un po' discosto dal centro e dalla chiesa, alle 16.45.  Passiamo la mezz'ora che ci separa dalla corsa 203 per Castelfranco bevendo alla fontanella, scattando qualche foto del Grappa che incombe sul paese e chiacchierando del più e del meno.  Mi dice che è fed up e che spera di non occuparsi più di sicurezza ed è iscritto a distanza a un corso di Management e leadership, riesco perfino a domandargli due cose tecniche relative ai corsi e alle tecniche di elearning che usano alla Southern Queensland University.

Mi offre il biglietto della corriera, 4 euro, siamo gli unici due passeggeri che vanno verso Castelfranco, zigzagando e ripercorrendo tratti di strada avanti e indietro per raggiungere angoli sperduti di frazioni come Bessica.  Saluti, good luck e scambio di whatsapp per memorizzare i numeri.  Io scendo a Ramon, è il posto più vicino a Riese e m'incammino verso casa con la consapevolezza che potrei marciare per ore e che i kilometri sono (anche) astrazioni.  Sono quelle strane idee, alla Forrest Gump, che ti vengono dopo che le gambe girano per ore e sembrano non volersi fermare più.  Thank you Andrew, have a safe trip back!



Wednesday, July 26, 2017

Grande fiume, portami via!

Alle 17.30 parte la corriera per S. Donà di Piave, cambio, Caorle, e ultimo balzo verso Porto S. Margherita.  Mi succede quasi sempre: i viaggi, piccoli o grandi, mentali o fisici, scompongono la realtà, asportano pezzi dolorosi e insensati mentre distillano brani d'essenziale semplicità. Oggi è un giorno in cui la peggior romanità, burocratica e assurda, ha rialzato la testa facendomi sentire con le spalle al muro. Vorrei le ferie, questo meta-luogo meta-fisico in cui ci si riappropria di un minimo di profondità, lasciando andare alla deriva urgenze fintamente importanti e vincendo la sindrome che ti fa pensare di essere indispensabile.

Compro il biglietto dal cinese del tabacchino, magrissimo e bene informato, "parte dalla corsia 8". Mi prendo pure un caffè che mi viene servito da una commessa nostrana che chiacchiera con quei bei tipi degli autisti in breve pausa prima della corsa seguente.  Come sempre sono uno dei pochi bianchi caucasici che prende la corriera, molti fra gli altri che attendono sono neri africani diversi nella tinta dai colori più tenui e mediorientali cui siamo forse più abituati. Questa neritudine di pece contrasta col cromatismo accecante del vestiti, spesso sgargianti al punto da mettermi di buon umore.


Partiamo con qualche minuto di ritardo, alla guida c'è una signora piccola e atleticamente tozza, sui 35 anni, con un accento meridionale forte che non riconosco.  Si mette immediatamente a chiacchierare con una passeggera che scenderà in periferia a S. Donà.  Un po' le chiacchiere, un po' la statura rischiano di non farle vedere che mamma e due bambini non hanno ancora finito di scendere dalla porta posteriore e accenna a ripartire mentre un paio fra gli 8 a bordo le urlano "aspetta!".  Si scusa, "non li avevo visti".

La corriera fa un percorso che è un esempio di come per andare da A a B, nei viaggi come nella vita, si possa fare un arabesco anziché una linea retta.  Su e giù, destra e sinistra, da Monastier in poi ci infiliamo su vie strette e frenate brusche per fare salire e scendere gente non chic che mi fa simpatia.  L'autista di tanto in tanto tira delle belle inchiodate perché siamo su strade arginali (o marginali, scegliete voi), sopraelevate rispetto al livello campagna, e non ci passano una macchina e una corriera.  Attraverseremo Zenson di Piave, Fossalta di Piave, Musile di Piave sempre diretti, con cantilenante consecutio, a S. Donà di Piave.  Realizzo che il Piave, come i gatti, ha tante vite.  Alcune le conosco: mi sono familiari il greto di Lentiai, il fiume sacro alla patria del Montello e le Assicurazioni ValPiave.  Ma mi rendo conto che questa zona mi è nota né più né meno della Lusiana e del suo Mississipi. Zero! Comincio a pensare "Grande fiume, portami via", lontano dalle rive ministeriali del Tevere, in mezzo a campi di mais e ortaggi e casoni di bonifica e fossi.  E pensare che il fiume lo si vede poco e solo in qualche tratto d'un verde cupo e militare (in effetti, l'abbinamento ha senso...)  ma m'immergo in questo viaggio di un'ora e mi pare una transiberiana su quattro ruote targate ATVO, dove la "O" sta per orientale, cazzarola, fra argini, canali, tagli e strade di campagna di questo esempio di Veneto profondo.

Sono le 18.30 e a S. Donà chiedo all'autista se ce la facciamo a prendere la coincidenza per Caorle.  La signora prende un tremone, "non la vedevo e pensavo che non fosse rimasto nessuno a bordo" .  Constato che per guidare basta vedere bene davanti, visto che lo specchietto non lo sa usare o non è regolato giusto.  Capisce che siamo un po' in ritardo e, sempre chiacchierando, ci mette impegno e addirittura taglia per una stradina in centro, abbandonando il percorso ortodosso, per fare prima.  "Sa, alle sei tutti tornano dal lavoro, c'è così traffico...'', (si, dice "così traffico"!)  e aggiunge "Ho il cellulare scarico sennò chiamerei la stazione, ma non si preoccupi che ce la facciamo".  Come in Luisiana, anche qui nessuno ti molla, il mio destino è Caorle e addirittura mi dice con malcelato orgoglio: "Però, due tratte belle lunghe, prima da Treviso a S. Donà e ora fino a Caorle".


Wow, sto per decollare: già ero in modalità onirica ma con due ore di viaggio in Piave-shire mi sento poco meno di Phileas Fogg nei suoi 80 giorni in giro per il mondo!

In ogni caso, ipse dixit e infatti arriviamo in autostazione a S. Donà in tempo e posso salire, senza colpo ferire, sul mezzo per Caorle, con altre 12 persone senza tanti ariani di mezzo oltre a me (alla fine poi gli autisti cazzeggiano e partiamo pure con 8 minuti di ritardo).  Dev'essere la suggestione dei meandri del Piave ma le strade dirette qui non hanno successo.  Noi, per andare a Caorle in macchina, avremmo preso percorsi diversi ma qui si passa per Eraclea e Ottava Presa, terre di latifondi e di bonifica, di zanzare in picchiata come Stukas, sono cose belle.

Cesira mi raccoglie a Caorle e mi accompagna a Porto Santa Margherita e al suo mare che nulla ha da invidiare a Portofino (de gustibus, no?).  Porto S M, penso che si scrive PSM e sono trafitto dall'analogia con PQM, "per quanto motivato"!  È evidentemente una fase della vita in cui le sentenze mi danno la (s)carica.  Eppure, 5 euro, due ore col grande fiume e l'umanità viaggiante e al volante per queste terre mi hanno rimesso in sesto o forse, veramente, mi hanno portato via.  Non so quanto durerà ma costa molto meno dello psicanalista.

La vista di PSM mi dà sempre i brividi per modernità e bellezza del mare. Ah si?  Zommate bene fra i due grattacieli...


Saturday, June 03, 2017

In Giro fino a Foza

Senza Elena mai avrei pensato di fare la salita di Foza a questo punto della stagione, solo 150 km nelle gambe e la netta consapevolezza che era troppo presto per le "grandi'' salite che, quando mi va bene, faccio a fine stagione. Ma la sua gentile e tenace insistenza e l'occasione dell'arrivo del giro alla centesima edizione alla fine mi hanno convinto e, nonostante numerose defezioni, siamo partiti alle 9.30 da Riese (avremo il lusso dell'auto al seguito con Cesira, Lorenzo e Stefano a portare la pasta fredda e i rifornimenti).


Elena pesta sui pedali in una giornata perfetta, calda-fresca, luminosa e celeste.  Fatico a tenere il suo passo mentre zigzaghiamo verso Bassano, nord-ovest-nord-ovest, Romano e finalmente Pove del Grappa.  Qui c'inseriamo nel percorso dei corridori che scendono dal Grappa, è un tripudio di striscioni rosa, scritte, festoni, coccarde, installazioni varie a forma di bici.  È facile lasciarsi contagiare dall'entusiasmo per l'arrivo della corsa ed è un gusto sentire che, per un giorno, i padroni di casa siamo noi ciclisti e le auto se la mettono via e portano una pazienza infinita con tutti questi che instasano le strade in doppia e tripla fila.
Se pensate che sia uno scherzo, provate pure!
Fermata per caffè e bottiglia d'acqua fresca a Valstagna, alla "solita" Gelateria Da Gino. Poi partiamo su per la salita ed è uno spettacolo nazional-popolare con rotoli di ciclisti di ogni età e foggia. In questo periodo devo essere sensibile a queste manifestazioni di massa, ho appena scritto un post sull'adunata che si è conclusa da qualche giorno. La Valstagna-Foza è una strada bella e stretta a strapiombo che in 14 km ti fa salire da 150 fino a 1090 metri, finora l'avevo fatta due volte in mountain bike parecchi anni fa. Fino a metà salita vado più o meno alla velocità di Elena che va su agile e mulinando in apparenza senza sforzo. Fra le decine di altri scalatori inquadro Filippo, mi supera due volte, lo riprendo e lo risupero a singhiozzo, poi mi ripassa e questa volta definitivamente. Sale alla velocità di Elena ma io a metà salita, all'Osteria Piangrande, di colpo non ne ho più e da quel punto salgo lento, turistico y final, direbbe Soriano. È un bagno di realismo e umiltà, sospettavo che alla mia età una salita come questa non s'ha da fare con poco allenamento. E pensare che, un po' alla Lucio Dalla, "penso a grandi imprese, a una tailandese", speravo di fare il reverse split come il leggendario Eliud Kipchoge: prima parte più controllata e seconda più veloce dando fuoco alle polveri. Bene: la prima parte l'ho fatta ma -sfiga- proprio quando era il momento di accelerare per poco non mi fermavo e alla fine arrivo in cima quasi 10 minuti dopo Elena e Filippo. Sempre Dalla: "ma l'impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale". Appunto! Cronometraggio non ufficiale un tanto al chilo: 1 ora e 10 minuti.
C'è gente che era più provata di me... ma magari era il post-prandiale!
Il matematico-allenatore che è in me attacca con le considerazioni "macro"-filosofiche: i km che hai messo sul contakilometri contano, le salite vanno rispettate, chi si allena (Elena) o è in forma (Filippo) vanno su che è una meraviglia; gli altri si devono allenare di più o... entrare in forma! Elena aveva attaccato bottone e i vicentini Filippo, Marco e Carlo si sono fermati a mangiare con noi, avevamo vettovaglie per un plotone! 
Chi l'ha fatta in bici è qui!
Verso le 16.00 ci mettiamo a bordo strada a vedere passare la carovana e poi Kiryienka e Pozzovivo ventre a terra con una dozzina di secondi su Nibali and co. Vedo la maglia rosa di Quintana, come sempre è un attimo dato in quel tratto la strada "spiana" (ehm, si fa per dire, per un normodotato sarebbe ancora salita...) e passano come proiettili.

La coppia Kiryienka - Pozzovivo a tutta e zio Nairo, "Annibale"  e compagnia all'inseguimento.
Anche il ritorno ha la sua poesia: un fiume di ciclisti scende per i tornanti, vari fra quelli che ruzzolano a valle sono fuori di testa e, magari senza casco, pennellano le curve come a Indianapolis. Mi auguro di ritrovarli in salita quando sarò in forma, che pareggiamo i conti e ripeto il mantra del ciclista yoga "se cadi in salita non succede un cazzo ma in discesa, se va bene, sei rovinato!". La picchiata resta godibile, salutiamo Filippo, Carlo e Marco, che è arrivato con le mani rattrappite a furia di (cercare di) frenare la sua mountain bike pesante come la morte! Grazie ragazzi, alla prossima!

Io ed Elena voliamo verso Riese, è una bellissima serata, è stato un trionfo, morale a 1000, scalatori per un giorno, W il Giro del Centenario! Elena va talmente forte che, letteralmente, non riesco a darle un cambio, non uno, non pervenuto. Maschio alpha a cuccia, ciapa su e porta a casa...

[La tappa era la Pordenone-Asiago del 27 maggio 2017. Alla fine Kiryienka e Pozzovivo li riprendono e la volata a 5 la vince Pinault. Io c'ero! Per colpa di Elena sto rimettendo gamba, così magari la prossima volta andiamo su insieme. Oggi giro sul Montello con passaggio alle 12.00 a S. Croce del Montello, sono stato trafitto da un momento serendipitoso: il carillon della chiesa con "Il Piave Mormorava" (Canzone del Piave). Non vi sto a spiegare tutto, commovente e basta!]



Monday, May 29, 2017

Alpini, grazie!

Stamattina chiediamo ad Alessandra i motivi di una non comune tranquillità al Caffè Letterario. Lei dice che, in effetti, oggi è un giornata calma, "non come sabato scorso, quando c'erano gli alpini". Lo dice trasognata e poi aggiunge, per togliere involontariamente la sensazione che lo dica perché si facevano tanti affari: "persone semplici, gentili, è stato bello".
http://www.treviso2017.it

Lo scambio con una delle nostre bariste preferite mi ha ricordato l'importanza di scrivere qualcosa su questa Adunata degli Alpini, quella del Piave. Chi scrive è un obbiettore di coscienza, sinistroide e alquanto diffidente verso la retorica patriottarda che aleggia sempre attorno all'argomento. Ma sono anche Veneto e, come tale, mi sento in diritto/dovere di essere "confuso" in un modo che, credo, ci sia proprio: sono catto e comunista; capisco le sparate della Lega perché ho visto coi miei occhi le scritte vergate sui viadotti 30 anni fa e le sento pronunciare anche da amici carissimi; so quanto ci siano solidi motivi per dire "Roma ladrona", anche ora che col MOSE ci siamo abbastanza allineati; conosco il Montello, l'Altipiano di Asiago e il Grappa e passo quasi settimanalmente per paesi il cui nome recita "della Battaglia", con la "B" maiuscola; so quanto questa terra abbia contribuito, col sangue sparso nelle trincee e nella lotta partigiana e col sudore del duro lavoro dei metalmezzadri, a questa Italia, che resta sempre una croce e una delizia.



Ebbene, in questo consueto e straniante intreccio psicologico l'Adunata è stata una rivelazione e, in sintesi, faccio mia la valutazione di Alessandra: è stata uno spettacolo di bellezza. Mi riferisco, come lei, più alla bellezza interiore che emanava da questa gente che all'impressionante sfilata durata 10-12 ore. È gente solida, spesso di mezza età, gente che al bar saluta con un "Buongiorno" e un "Arrivederci" gli altri sconosciuti clienti. È gente che, come me, può forse dire qualche cazzata intrisa di noi-loro, ma loro salgono sul camion e corrono dove c'è un'alluvione, un terremoto, muti, solidi, organizzati...

Ovviamente, ma non servirebbe dirlo, c'era qualcuno che alzato il gomito e che alla sesta birra da mezzo + 4 ombre non era proprio un bel vedere. Ma, pensateci un attimo, in mezzo a 500.000 persone è tanto che non ci scappi il morto e non sono due ubriachi a cambiare nulla: spesso quelli che deragliavano, specie il sabato sera, erano giovani con l'età dei miei studenti e più che Alpini sembravano gitanti che pensavano che all'Adunata ci si sbronza e basta. Forse sarà anche così. Eppure decine di migliaia di persone hanno mostrato civiltà somma, si sono accampati con garbo ovunque, perfino nelle aiuole spartitraffico, hanno fatto festa con la famiglia, mariti, mogli e figli per giorni bevendo qualche bicchiere e amen. Quelli giovani mi davano l'idea di essere quei fighi che, dopo aver bevuto, guidano e a volte si fermano sulle catalpe, mentre gli alpini in genere andavano in camper o in tenda, rigorosamente a piedi, a smaltire senza creare ulteriori danni a sé stessi e agli altri. Comunque, da veneti ci siamo abituati al cliché del bevitore, e ce lo prendiamo tutto (e proprio un mio studente, assunto in un bar per far fronte all'onda umana mi ha detto che mai aveva versato 100 bottiglie di bianchi e 100 di rossi con l'aggiunta di 800 bicchieri di birra in una serata, era il venerdì).


Sono stati giorni bellissimi anche perché ho visto passione civile e tricolori ovunque. Relativamente alla prima, cito l'episodio del Ponte dell'Università che versava in pessime condizioni. La Fondazione Cassamarca ormai asfissiata dai debiti non manutenziona più nulla e il ponte disegnato da Portoghesi mostrava i denti: vernice da ridare, tavole consunte, anche qualche buco. Una squadra di Alpini se l'è preso in carico il martedi e, pioggia o non pioggia, lo ha rimesso a nuovo, veramente più bel che pria. E non è che ci hanno dato una passata dove passa il prete. Mordente a gogo, riverniciato completamente, filler e stucco dove serviva, tavole nuove di palla, perfino le sfere di ottone luccicano ora al punto che ci si vede lo stemma, che mai avevo notato nell'opacità precedente, della confraternita di S. Maria dei Battuti del vicino ex-ospedale. Alpini, grazie!



Per quel che riguarda i tricolori, non ho potuto non notare continuamente che questo sventolare di bandiere in un posto in cui la Lega ha governato col suo sceriffo per decenni è curioso (che è un modo gentile di definire la nostra "confusione"). Tricolori ovunque, in un posto in cui, per poco, le folle non hanno gridato "Veneto nathion, secession!", a pochi kilometri da una Venezia in cui Umberto Bossi disse nel 1997 di mettere al cesso la bandiera italiana appesa al balcone.
Proprio durante l'Adunata, i sindaci Manildo e Gentilini si sono visti insieme, tutti e due con la testa sotto un cappello verde con piuma a prima vista anacronistica. Il primo cattolico di centro-sinistra, il secondo lefebvriano, leghista e parecchio a destra. Robe mai viste o, meglio, robe che vedi ogni giorno in questo lembro di pianura padana. Confusi?  No, normali! Mi fermo qui perché è impossibile ricordare tutto il resto:
Com'è triste la sera lasciar la montagna
e tornare in città.
Che, qui sull'Alpe, non siamo soli,
c'è tutta l'Italia che a fianco ci sta.
I cori a Santa Rita e le fanfare (W la Val Susa!), il traffico bloccato per giorni, il piacere di girare per il PUT a piedi, l'organizzazione che consente la sicurezza a quasi mezzo milione di persone, i bar aperti una tantum per tre giorni e due notti nei locali sfitti in deroga a ogni licenza, i panini con la mortadella per due euro, i giardini delle scuole rimessi a nuovo, la piantumazione degli alberi, una sfilata comovente coi "nostri" di Feltre, la "Cadore" adesso dismessa, quelli di Bassano che non finivano mai, il canto potente e ritmato di "Berghem, Berghem", l'aquila imbalsamata, le crocerossine, la protezione civile, i battimani...

Nuovamente, grazie Alpini, grazie Treviso.



[L'Adunata si e tenuta dal 12 al 14 Maggio 2017. Il traffico era bloccato in tutta la città già dal giorno 11 e io sono arrivato a scrivere il post con discreto ritardo]

Friday, April 21, 2017

La forza espansiva della nullità e Francis Bacon

Non credo alla coincidenze, so cos'è una probabilità, non credo alla sfiga anche se qualche giorno fa ho perso per meno di un minuto di ritardo due treni (era la prima volta in decenni, il cigno nero di noi pendolari!). Credo per converso che organizzazione e raziocinio facciano miracoli e che spesso ci siano eventi e incontri serendipitosi, me ne sono capitati troppi nella vita per non sapere intimamente che spesso ci s'imbatte in circostanze e persone, vere e propri benedizioni ambulanti che compaiono esattamente quando servono, anche quando ormai ti senti in un angolo.

Eppure oggi ci deve essere stato qualcosa nell'aria frizzantina che mi ha accolto a un convegno in apparenza tecnico, "Il contenzioso bancario tra classico e moderno", in occasione del decennale di una famosa (mah?) sentenza dalla corte costituzionale sui derivati. Ma era il sottotitolo, questo "forza espansiva della nullità", che deve aver iniziato a squagliare il reale e a dissolverlo in un cumulo di suggestioni stranianti in cui le parole sembravano sempre più non tanto riferirsi ad aspetti tecnici ma alludere al mondo, alle cose e ai sentimenti, tutti ricacciati nell'annichilimento da questa espansione virulenta del nulla... D'altra parte, se ci pensi, nomina sunt consequentia rerum: i derivati non si sa se sono veri, dato che derivano e promanano da altro, quasi delle ombre platoniche con qualche effetto collaterale finanziario; e continuando su questo tema, come si vedono i costi occulti? Non lo vedi l'ossimoro? Sono o non sono occulti scatenando imagini di culti esoterici e Nosferatu?

Dopo una mezza giornata in cui ho sentito persone serissime affermare che "facciamo processi in cui il giudice non sa di cosa parla e con lui non capiscono nulla avvocati, consulenti e testimoni..." o fare battute nichiliste come "la giustizia non è di questa terra e non ci sarà mai nemmeno di fronte al buon Dio", anche il mio solido materialismo (cattocomunista) ha vacillato e mi sono sentito invadere da una sensazione incorporea di svanimento del reale che ha raggiunto l'apoteosi quando hanno definito noi matematici come degli "sciamani, gli unici in grado di mettere in comunicazione i giudici con il divino" che si disvelerebbe nelle curve forward, nell'alea asimmetrica e nei possibili scenari avversi.

A queste suggestioni a un certo punto si sono aggiunte anche altre sinistre notizie proveniente dalle erinni burocratico-amministrative che infestano la mia vita. Leggo degli email in cui colleghi che sembrano normali, ma in realtà devono essere posseduti, dichiarano che non c'è il tempo di fare cose semplici e sensate ma è perfettamente possibile intraprendere un iter burocratico folle il cui unico esito è il fallimento visti i tempi che ci sono dati... Già, dev'essere la "forza espansiva della nullità" che si è impadronita, e non è la prima volta, degli uffici e di chi ci lavora!

Ebbene, in preda a questo travaglio esistenziale e filosofico, quando alle 17.00 scendo dall'autobus n. 1 che da Carità mi lascia in Piazza del Grano, mi trovo di fronte a un bivio. Czzrla, è una metafora che viene in mio soccorso! Quel che resta del tutto mi vuole parlare e il bivio (stradale: Via Manzoni o Viale Burchiellati?) si trasfigura in una scelta di enorme valenza: vai a scrivere email per un'altra ora incazzandoti come una bestia o vai a vedere la mostra di Francis Bacon? Lo sai che cosa ho deciso, vero? Francis Bacon tutta la vita! In realtà, mi scappano alquanti simpatici e liberatori "ma va in mona" indirizzati affettuosamente a vari soggetti istituzionali e privati. Non è un' offesa, giuro, mi do del mona numerose volte quasi ogni giorno e non me la prendo nemmeno con me stesso.

La mostra è semplicemente bellissima. Opinione personale, ovvio. Anzi, in questo caso, personalissima dato che Bacon non è un soggetto semplice e alcune opere, come le crocifissioni, quasi certamente mi avrebbero indignato qualche decennio fa. Ma col l'età forse viene anche la saggezza (?), qualche lucidità e, non ultima, l'espansione della nullità e il delirium tremens del moloch amministrativo in cui tutto dovrebbe essere logico e al tempo stesso radicato inestricabilmente nella follia. Bacon disegna delle cose spaventose e mirabili, come la serie dei papi e mi posso godere le opere in una Casa dei Carraresi ariosa e semivuota, dato che la massa dei turisti preferisce gli impressionisti a S. Caterina.

Tre papi e almeno due Innocenzo III, nelle versioni di Bacon e di Velazquez/Bernini  (da un'incredibile stanza della Galleria Doria Pamphjili a Roma).
Bacon disegna delle sequenze ripetitive e il curatore annota che "le opere sono molte, spesso anche con minute variazioni, perché voleva riuscire a proporre la forma perfetta, ripetendola più e più volte". A me la convergenza per piccoli passi pare sensata e utile ma l'esperto continua con una sparata su Freud, che avrebbe scritto: "la ripetizione di una stessa cosa... suscita un senso di perturbamento che, per di più, richiama alla mente quel senso di impotenza che si prova in taluni sogni". A me il perturbamento me lo fan venire queste letture e Freud mi pare che dica cazzate, ora e sempre: le ripetizioni sono tutt'altro che prova d'impotenza come documentato in altre pagine del blog. Tornando a Bacon c'è da dire che, un filo diabolicamente, mi affascina: bassa scolarità, ateo militante, gay, artista, disperato. E anche pervicace, brillante, iconoclasta, irlandese, provocatore, disordinato. Dice cose come:
Mi sento a casa in questo caos perché il caos mi suggerisce anche delle immagini.
O fulmina con battute tipo:
Dio? Non ho alcuna nostalgia di chi fa il prezioso... A me basta l'inferno, se ci vado io ci andranno anche i miei migliori amici, faremo baldoria sicuramente anche senza nostro Signore...
La maiuscola in "Signore" è sua, trovo il dettaglio ironicamente illuminante, più o meno come la circostanza che è morto solo e assistito dalle suore. Dice che coi "papi la religione non c'entra assolutamente; sono piuttosto frutto di un'ossessione per [...] il ritratto di Papa Innocenzo III di Velazquez". Tutto mi pare un cortocircuito che parte dal Bernini, che d'Innocenzo III s'intendeva, e finisce con "The New Pope", in giorni in cui mi tocca vedere gli episodi due volte per capire a fondo Sorrentino e quello che la storia mi dice senza essere distratto dalla bellezza funambolica delle immagini, dagli occhi di Jude Law e dal sogghigno beffardo di Silvio Orlando.


Altri due papi, quello in basso è preso da http://www.bacontreviso.it/opere-francis-bacon-treviso-casa-dei-carraresi/
Mi guardo anche la mostra con occhio tecnico e osservo da inesperto l'allestimento facendo pure foto alle contropareti per fissare idee per "In volta de Canal", prima o poi su questi schermi. Ascolto l'audioguida e mi dico che non la voglio uguale: troppi numeri da premere pur con testi e voce di ottima qualità. Preferisco una storia che si dipani, un racconto che guidi su un filo rosso senza abbandonare l'ascoltatore, finale col botto con Roberto Ferri e la sua "Figura in trasformazione" (il nuovo Caravaggio e io nemmeno l'avevo notato, grazie Ruth!). I pannelli neri sono bellissimi, le opere di Bacon risaltano illuminate dai faretti (anche se certi disegni a matita sparsa e ultradura si vedono così poco che attingo a una nullità grafica che ben si collega con quell'altra di cui parlavo prima).


Le persone si sentono ferite dalla distorsione delle loro immagini... Ma mi dica, chi oggi è riuscito a registrare qualcosa, qualcosa che venga recepito come realtà, senza aver compiuto un grave scempio all'immagine? Francis Bacon
Esco dalla mostra di Bacon e, forse stranamente, mi sento carico e più pronto di prima ad affrontare la pulsante e incomprensibile bizzarria di quel che mi circonda,  e la fatica e lo sforzo per rimettere assieme i pezzi e il senso di quesiti, cause, lavori e processi che a volte s'imbizzarriscono e si avvitano in una spirale insensata. A volte succede anche nella vita, Bacon me lo ha mostrato con ferocia sui suoi disegni e, anche se non vedo il mondo con le sue lenti, gli sono grato per aver ricucito a suo modo una giornata curiosamente degna di nota.

[Un post è un post e provare a rovistarsi l'anima non è sempre facile. Concedetemi qualche licenza letteraria e questa sessione di autoanalisi diaristica: il convegno era interessantissimo, stimo veramente i colleghi cui alludo, mi do del mona sul serio, non c'è contraddizione con quanto ho scritto e ogni riferimento a persone o cose reali è puramente casuale. Anzi nullo!]

Thursday, March 23, 2017

Santa Bibiana

Non si dorme bene fra le scosse di assestamento delle riunioni ASN, semplicemente ci sono troppe scorie da smaltire, troppa stanchezza e ansia da "do the right thing" che riaffiorano per ore.  credo che uno dei miei modi di reagire e di mettere in pratica strategie di resistenza umana sia concedermi breccie nella routine di 10-12 ore di meeting, anche a corso di sovraccaricare i ritagli di tempo che ti restano a margine di giorni veramente campali.

"Rita, che cosa c'è di bello a Roma vicino alla Sapienza?" avevo chiesto a cena.  non ci traggo grandi spunti, Villa Torlonia, che pure mi ricorda qualcosa, e poco altro.  mi sveglio troppo presto, danno collaterale frequente in questo segmento di vita, e sono folgorato dall'idea che Santa Bibiana non può essere molto lontana dal Globus Hotel.  rapido controllo su google maps, 1.8 km, 23 minuti, a questo livello di adrenalina mi pare acqua fresca. la strada è lineare e memorizzo il percorso che mi farà percorrere via Tiburtina, costeggiando il cimitero monumentale del Verano, e infilare il sottopasso oltrepassando i binari di Termini.

Piazzale del Verano
Buone chance per la colazione a "C'era una volta il caffè" in Via Tiburtina

doccia e partenza alle 6.45 confidando sul fatto che le chiese aprono presto per accogliere anime semplici e bonorive.  Bibiana, chi sei? e perché vengo a vedere questa chiesa un po' spersa lungo i binari?  la mia Bibi era una martire cristiana, uccisa nel 362 a 15 anni, legata a una colonna e flagellata.  tempi duri, tempi cupi, tempi all'incontrario in cui i martiri si facevano ammazzare per professare una fede e non facevano stragi di altri in nome di un Dio capito a rovescio.

cammino svelto e scatto qualche foto dell'ingresso del cimitero del verano, che visiterò la prossima volta, percorro via Tiburtina immaginando che la stazione omonima sia dal lato opposto, vedo il bar "c'era una volta il caffè" e, guardando i cabaret di brioches, mi dico che è solo questione di tempo.  chiedo a un gruppo di fruttivendoli che stanno costruendo pile di carciofi dove sia Santa Bibiana.  sono malesi o bengalesi o magrebini, chissà, ma fa lo stesso: non hanno la minima idea e sfidando la paura di non ricordare giusto, continuo fiducioso nella mappa che sta nella mia mente fino a quando trionfante arrivo al sottopasso di piazzale Tiburtino.  guardo la città un po' sfatta, con costruzioni consumate e una torre serbatoio con scala a tortiglione, mi infilo nel tunnel scavato sotto le decine di binari di Termini, sono contento perché so che sono praticamente arrivato e mi godo pure il frastuono di un budello pieno di traffico.  sbuco dall'altra parte su Via Giolitti, non è una strada chic, fatico ad attraversare, incrocio un'anziana e chiedo anche a lei dove sia Santa Bibiana.

Guardando bene si vede l'abside ella chiesa la cui entrata è all'altezza dell'abete
La "vista" della facciata da Via Giolitti

In realtà ce l'ho veramente davanti agli occhi ma la chiesa è coperta e semi-invisibile, quasi azzannata dai tentacoli della stazione, dai binari del tram e da un complesso industriale con un'altra torre serbatoio.  è una chiesa piccola, difesa da una cancellata che, sono le 7.03, è ancora chiusa.  ma aprono alle 7.30 per dire messa alle 8 e decido di tornare sui miei sottopassi andando a fare colazione a "c'era una volta il caffè".  ne vale la pena: cappuccino con crema e cornetto piccolo alla crema pasticciera, 1 euro e 60 e tanto di cappello.  avant'n'andré e alle 7.25 sono di nuovo in chiesa che, minuta e controluce, è già aperta.  dentro ci sono un signore che legge le lodi seduto a metà navata e un prete anziano che cammina avanti e indietro recitando il salterio.  sono là per vedere la statua del Bernini, scolpita nel 1624 quando Gianlorenzo aveva 26 anni.  discretamente mi guardo il ritratto della Bibi da destra, genuflessione, da sinistra.  poi mi siedo, recito vari Padrenostro e sguaino il mio Magnificat, senza nemmeno ricordarmi tutte le parole, né del primo né del secondo alla prima volta.  la statua, come succede spesso, la si vede meglio in fotografia o negli strepitosi racconti di Montanari, dal vivo la luce posteriore aumenta il contrasto e i dettagli del marmo si perdono nella distanza.  si vede una giovane potente, con un panneggio che mi ricorda quello che sarà leggendario nella Santa Teresa, appoggiata alla colonna e con la palma del martirio in mano.  penso a varie cose: che sono in un posto che è là da 1700 anni o giù di lì, intitolato a una donna che era ancora bambina; che è un posto surreale divorato da una modernità ferroviaria che lo deturpa ma non per questo lo annulla; che è il punto d'inizio della carriera di un genio; e, infine, che mi consente di pensare al mio amore, a Roma, all'alba, lontani ma vicini, dopo che la dolce e Montanariana fascinazione che l'ha presa ha contagiato anche me!

La statua di Bernini si vede in fondo

puè, è ora di girare i tacchi e di ripercorrere la strada a ritroso.  facendolo, mi rendo conto che sono a S Lorenzo, il quartiere popolare cantato da De Gregori, "cadevano le bombe come neve / il 19 luglio a San Lorenzo", colpito nel 1943 da un bombardamento alleato che accelerò la fine del fascismo e lasciò solo fra queste case 1500 morti e 4000 feriti.

ho i minuti contati, pesto sulle gambe ancora indurite da 108 saluti al sole, arrivo al Globus alle 7.50 giusto in tempo per fare a tutta velocità la valigia e scendere a fare il checkout. l'appuntamento coi commissari è alle 8.00 e arrivo per primo al bancone.  sono carico a pallettoni, ripieno della vista e, forse, ancor di più dell'idea di aver solcato quest'ennesima millenaria frangia di Roma e aver reso omaggio all'opera di Bernini e a questa quindicenne di marmo e sangue e coraggio.

Tuesday, March 21, 2017

I numeri contano!

Esattamente tre ore fa ho celebrato il primo giorno di primavera, 21 marzo, con 108 saluti al sole, Süryanamaskara A (per chi ha voglia di un minimo di dettaglio).  108 è un bel numero, quest'osservazione deve aver influito sulla decisione di puntare la sveglia alle 5.25, vestizione del guerriero, tazza di te preparato la sera prima e messo in microonde per 60 secondi, arancia e via verso la palestra sul PUT deserto (erano le sie meno un quarto...).  108, ti dicevo: bel numeretto, magari non te lo aspetti ma ha mucchi di divisori, 2^2*3^3, 27*4, rotoli di 3, 9, 27 e anche i sempre validi mattonicini 2 e 4.  siamo una quindicina, forse qualcuno in più: ``concentratevi sul respiro, se a un certo punto vi domandate a che punto siamo o quanti ne mancano, accogliete i pensieri e dategli spazio fino a quando se ne andranno'', chi ci parla è Romina, voce ferma e dolce allo stesso tempo, potente e tranquilla, suggestiva e melodiosa.

Attacchiamo con i 108 verso le 6.15, un saluto dietro l'altro, scanditi dalle 9 fasi, uno mi allungo, due sguardo alle ginocchia, tre guardo la fronte, quattro piegamento, cinque cane a faccia in sù, sei cane a faccia in giù (inserto: uno, due, tre, respiri) e poi si torna a casa, samastithi.  mi piace questa sequenza di 9 passi ripetuta 108 volte, un mantra che ti prende e ti porta via.  ci riconosco altre esperienze di vita comune: la bella ripetitività del contare le pecore quando non arriva il sonno, ma anche le 100 disequazioni fatte per esercizio fino a quando non solo capisci ma meccanizzi il procedimento e sciogli l'esecuzione e le 30 serie da 10 tiri da fuori di Drazen Dalipagic, uno dei più grandi tiratori di basket di tutti i (miei) tempi.  e ci potrei aggiungere il rosario con le sue 50 avemaria e la stessa corona di grani che Romina usa per scandire il conto alla rovescia verso 108.  Queste serie, successioni lunghe e incessanti, grondano di matematica che mi risuona dentro, mi confermano la solida certezza che i piccoli passi ti portano lontano e che l'archimedeità è una potenza esistenziale oltre che una proprietà dei reali.

Guardo l'orologio solo alle 6.30, per un attimo, c'è da aver paura!  Saremo sì e no arrivati a 30 saluti.  io sgrondo anche di sudore, oltre che della matematica di prima, le mani che scivolano sul mio tappettino pieno di gocce ad ogni cane faccia in giù...  Romina mostra vista e cuore acuti, se ne rende conto e mi da un tappettino ``serio'', di quelli in cui non mi sento sul ghiaccio.  da quel momento, a poco a poco, quel che resta dei 108 comincia a volare via.  forse era destino, ma comincio a respirare col ritmo giusto, a rallentare le inspirazioni e espirazioni, a godermela un po'.  occhi bene aperti, ``che sennò la mente ti porta via'', sbircio anche la perfezione allungata dei cani a faccia in sù di Cristiana (grazie!), prendo energia dal respiro di chi mi sta accanto, desincronizzando le mie braccia con le loro per evitare di sbatterci quando apriamo e chiudiamo le ali all'inizio e alla fine dei saluti.  ho l'impressione, a partire dall'ottantesimo saluto o giù di lì, che potrei continuare a lungo, sfioro quello stato di flow mentale e fisico in cui fai quello che devi, lo fai bene, non ci pensi più e tutto scorre nel modo giusto.  succede in certe biciclettate, in certe lezioni, in certi post in cui tutto s'incastra nel punto esatto senza fatica apparente.  oltre che flow è glow!

Romina dice ``100'', è una folgorazione, vediamo la fine, altri 8 saluti e siamo al capolinea, me li gusto con la sensazione blandamente trionfante di chi non sapeva del tutto se ce l'avebbe fatta e ne ha pur sempre sgranati 108.  sono contento, rilassamento, sorvolo sulla voce dal tono udibilmente irritato della signora che si lamenta che le abbiamo occupato il parcheggio dei clienti (ma quali se sono le 7.40 di mattina...)

Ringrazio e saluto, mi rituffo nel traffico che a quest'ora inizia a mordere rabbiosetto, tutti zigzagano e si fermano a ogni buco per lasciare i bambini a scuola, raccogliere i passeggeri, arrivare puntuali al lavoro.  il casino mi fa pure simpatia, per qualche ora vivrò di rendita e poi i pensieri, l'ASN (questa te la racconto fra un'anno e mezzo), le grane e tutto il resto verranno a riprendermi. ma mi resta la consapevolezza, molto numerica, molto mia e forse molto yogi, che sono protetto da 108 ekam, dve, trini, catvari, panca, sat, sapta, astau, nava...  bei numeri, no?

[Si leggono yekan, duei, trini, ciatvar, pancia, shat, sapta, astau, nava. E per chi non vive di sola matematica, l'archimedeità è quella proprietà dei numeri reali che dice che anche se y è grande a piacere e x è piccolino, esiste un numero n tale per cui n volte x supera y. Te lo ridico come piace a me: per quanto piccolo sia il passo x, se lo moltiplichi tante volte si va oltre qualsiasi limite y...]

Wednesday, March 08, 2017

Über alles

Quasi certamente si tratta dell’albergo più costoso della mia vita. E con altrettanta sicurezza è anche il peggiore che io ricordi: un buco bene organizzato con degli adesivi di carta sulle porte per indicare il numero di stanza, la moquette filamentosa verde vivace tipo prato sulle pareti, i soffitti dei corridoi bassi e pure controsoffittati e illuminati né più né meno che come fossero cunicoli del braccio della morte. La mia camera poi è uno spettacolo di sottoscala. sì, un sottoscala in cui almeno non picchio la testa se mi alzo di scatto, dato che la parte bassa sta verso i piedi. il bagno è microscopico, il bidet occuperebbe metà dello spazio, rigorosamente cieco e senza nemmeno l'aspiratore "vortice". però, pensa un po', ci sono le misure di sicurezza: l'uscita d'emergenza dal nome pomposo di "Notausstieg" è sulla finestra. sì, in caso di bisogno si esce dalla finestra... guardo fuori, sono al primo piano e sotto c'è un parcheggio. in emergenza puoi sempre saltare e sperare di atterrare sul tetto di un'auto che attutisce!




Ma dove sono capitato? E' o non è la stessa Germania che poche ore fa mostrava il bicipite possente allo ZIF, l’istituzione di ricerca superiore interdisciplinare più vecchia dello stato, quadri artistici alle pareti, appartamenti per i fellows, stanze luminose acciaio e vetro mollemente adagiate su una collina? come ho scritto altrove, alle città bisogna lasciare tempo, sennò non hanno il tempo di mostrarsi. questo albergo in Am Wald 6, Dusseldorf-Benrath, profonda periferia della Dusseldorf con un aeroporto strafigo dotato di Flughafen Banhof e Skytrain mozzafiato, questo albergo -dicevo- è la sintesi di un bel dilemma in cui anche i tedeschi sfiorano il terzo mondo e forse lo toccano con mano. eppure, fammelo dire, a poco a poco, se gli dai il suo tempo, anche posti luciferini come questa topaia dove forse passano danarosi profughi o magnaccia, rivelano la loro corrusca bellezza. Intanto è più pulito di quel che pare: un buco allo spic e span, diciamo così. poi mi lasciano sul piumone e cuscino una bustina monodose di ciuccetti Haribo Goldbären. infine, la signorina alla receptionist, sui 25 anni appena appena portati malino, quando capisce che non faremo colazione perché partiamo all’alba si offre di farci la colazione al sacco. datti un pizzicotto e ripeti con me: “colazione al sacco?”. questi devono essere fuori di zucca, ti pare che m’importi della colazione al sacco in questa allegra fognatura?

a un certo punto ce ne andiamo, saranno le 10.00, decisi a trovare un boccone da mangiare. passiamo per una strada che mi pare la quintessenza della periferia: desolata, sgarrupata, case troppo sfatte e troppo chiuse, poca luce, perenni lavori in corso… poi arriviamo a un sottopasso che invece fiammeggia sotto le luci strobo-neon che lo accendono a giorno. ci infiliamo in questo budello colorato di graffiti immersi nel rombo di fiumi di macchine che ci passano sopra sull’autostrada. mi attendo da un momento all’altro una gang di malviventi o, peggio, di skinhead rasati e tatuati con una croce runica sul braccio destro e una svastica sul sinistro.

 
ma non succede nulla e arriviamo al grande parcheggio sotto al grande viadotto, quello dove passano i fiumi di macchine di prima, e a poco a poco affiora un paese, Benrath, dove c’è pure una Halte Kirche in mattoni rossi e un centro storico con i negozi. sono chiusi sprangati ma mi vien pure da dire che “è un bel centrino”. e troviamo Palmenhaus, restaurant-biergartner e unico posto in cui trovi da mangiare in questo lembo di svincoli autostradali periferici. è gestito da greco-turchi, due popoli molto popolari nella Germania di questi anni, io mi sento dentro una sintonia mai provata prima col sud del mediterraneo! sotto col mezzo tedesco, “was ist Pilzen?”, fungo, “ablo espagnol”, can we have a soup, ya e avanti con una babele funzionale che ci consente di capirci e anche di stupirci di un locale il cui sito recita "mitten unter den Palmen im Zentrum von Benrath")

non so che dire di questa Germania supertecno che ti fa sempre sentire in deficit di efficienza e con la nostalgia di casa. alla fine ci prendiamo una zuppa di pomodoro (con panna dolce, strano ma vero), una weizen e una wiener schnitzel (Barbara liscia con le patate fritte e io con patate arrosto e salsa di Pilzen). stavolta siamo caduti in piedi e mi porto pure via il tovagliolo con la palma, che anche in questo posto surreale ha il sapore di mare e di sole. aufwiedersen a tutti!

[A futura memoria: siamo venuti a Bielefeld, Nordrhein-Westfalen, per il kickoff meeting del leggendario progetto di ricerca EU funded ExSIDE "Expectations and Social Influence Dynamics in Economics". May the force be with us fino al 2020!]