La mia storia ha per oggetto il pavimento-mosaico disegnato da Carlo Scarpa per il palazzo Querini Stampalia, lo potete vedere in quest’immagine.
Nel 1961 Carlo Scarpa, con il determinante aiuto di un personaggio del calibro di Bepi Mazzariol, direttore della Fondazione Querini Stampalia, fu incaricato di rimodellare il piano terra e il giardino del palazzo e di costruire, fra difficoltà che meriterebbero di essere raccontate, uno dei pochissimi ponti moderni a Venezia. Come sapete, lavorare a Venezia è arduo perché si percepisce sempre il peso e la stratificazione di secoli di arte e interventi architettonici da parte di moltissimi maestri. Scarpa riuscì, come in altri casi, a trovare un sottile equilibrio fra innovazione e tradizione, e proprio lui diceva che la sola vera innovazione dev’essere radicata nello stretto rispetto della tradizione.
Non ho il tempo in questa sede per discutere le moltissime sfaccettature di quella che è ora chiamata ``l’Area Scarpa’’ e mi concentrerò solamente sul pavimento. Credo che si possa affermare che nulla del genere era stato ammirato prima. Vi mostro alcune figure per consentirvi di apprezzare questa magnifica complessità multicolore, nella speranza che possiate condividere le domande che mi sono fatto sul significato di questo pavimento.
C’e una forma di regolarità? Ovviamente no. Si tratta di un mosaico casuale? Ovviamente no, perché si vede immediatamente che certe combinazioni di colori sono più frequenti di altre; inoltre alcune configurazioni che dovremmo vedere spesso in una disposizione casuale non sono invece mai presenti. Sappiamo che Scarpa non disse ai marmisti di disporre le tessere a loro piacimento ma disegnò precisamente la loro posizione. Come dice Gombrich, nell’esperienza estetica ``il piacere spesso sta da qualche parte tra la monotonia e la confusione’’.
È possibile pensare che Scarpa avrebbe potuto fare qualcosa di diverso? Questo specifico pavimento avrebbe potuto essere diverso? Non lo sappiamo, perché l’architetto non ha lasciato spiegazione e non abbiamo la minima idea di quel che aveva in mente.
Bisogna dire che alcuni critici pensano, sic et simpliciter, che qualsiasi opera d’arte è unica e affermano che non potrebbe essere diversa da quello che è. Per esempio, un collega psicologo cognitivo, Paolo Legrenzi, dice in un bellissimo libro intitolato ``Regole e caso’’ che ogni lavoro di Jackson Pollock è unico. Guardate questo quadro, Alchemy, visibile alla collezione Peggy Guggenheim. Può essere unico, nel senso di fatto così e solo così?
Oppure condividete l’opinione che, in linea di principio, Pollock avrebbe potuto lanciare la vernice sul quadro in un modo leggermente diverso?
Beh, se questo è il caso, siete probabilmente vicini ad accettare l’idea che un Alchemy diverso era possibile, almeno se siamo in grado di capire in qualche modo che cosa c’era nella testa di Pollock e cosa avrebbe potuto fare di diverso quando la vernice sgocciolava sulla tela.
Il pavimento non è del tutto irregolare e siamo in presenza di qualche forma d’ordine, è difficile capire quello che succede ma abbiamo (io ce l’ho di sicuro) l’impressione che ci siano dei pattern e un ordine nascosti e non percepibile immediatamente.
Vedete la struttura ad elle ''o a tre quarti’‘ in cui tre quadrati di marmo dello stesso colore interagiscono con un quadrato di diverso colore. Lo stesso motivo era stato utilizzato anche in altre opere del ``Professore’’.
Da dove è venuta quest’ispirazione? Lasciatemi fare un passo indietro: qual’era la tradizione o, se volete, che cosa aveva visto Scarpa nel suo passato? Aveva fatto qualcosa di simile qualche anno prima del 1961 al negozio Olivetti in Piazza S. Marco.
Ovviamente la brillantezza dei colori ci ricorda la Querini ma, allo stesso tempo, questo pavimento è molto regolare. Scarpa utilizzò una pattern simile anche in altre opere.
Certamente, vide molti pavimenti tradizionali come quelli che vedete nella Basilica di S. Marco e provenienti dalla scuola cosmatesca a Roma, S. Maria Novella e S. Paolo fuori le mura.
Nondimeno, ovviamente, il mosaico della Querini è diverso pur trasmettendo la stessa sensazione di camminare su un tappeto di marmo.
Sono in debito con l’amico e architetto Guido Pietropoli che mi ha mostrato alcuni quadri di Josef Albers. È verosimile che Carlo Scarpa abbia visto queste opere (anche se non ne siamo certi, visto che questi lavori sono divenuti noti molto dopo che la serie degli ``omaggi al quadrato’’ fosse conosciuta).
Ma vide e apprezzò il lavoro del belga Jean Arp più di un decennio prima. Questa volta siamo certi che Scarpa vide l’opera di Arp perché decise di inserirla nella celeberrima Biennale del 1948 in cui allestì il padiglione di Peggy Guggenheim.
Quella Biennale fu un raggio di luce dopo la devastazione della seconda guerra mondiale e l’esibizione della sua incredibile collezione d’arte rese Peggy famosa e riconosciuta come una dei maggiori collezionisti d’arte del mondo. Ebbene, Scarpa collocò il collage di Arp in una posizione importante e, quindi, abbiamo la prova che conoscesse la forma ad elle che è presente sia qui che nelle opere di Albers.
Questa ricostruzione del padiglione mostra il quadro posizionato proprio vicino all’ingresso. Ho fotografato il plastico in una retrospettiva sul padiglione greco di Peggy al museo Guggenheim nell’estate del 2018.
Adesso è il momento di dare spazio alla matematica! Ho parlato di pattern, una struttura regolare che si può trovare in un sistema, in un’opera d’arte, in un quadro o in un mosaico. Come si possono trovare i pattern in una figura? È proprio qui che la matematica assume un ruolo.
Essenzialmente, il pavimento è una matrice e ciascuna tessera è un elemento di questa matrice. Quindi, voi vedete un pavimento ma io, in realtå, vedo una riga di numeri, uno per ciascuna tessera. Ora, ogni immagine è una matrice, è solo questione di tradurre ciascun pixel in un numero e otterrete la vostra matrice. E in matematica c’è una lunga tradizione di analisi di matrici (se la matematica vi impaurisce, è forse più sexy pensare che sto parlando di intelligenza artificiale o computazionale che altro non è che l’arte e la scienza di trovare modelli per descrivere i pattern, le regolarità, presenti in oggetti fisici o mentali, che includono il mosaico della QS).
Osservate questa immagine: la signorina si chiama Lena ma, credeteci o meno, è solo una (bella) matrice. L’immagine di Lena è la figura più utilizzata al mondo per sperimentare tecniche di manipolazione grafiche. Nell’estate del 1973, un assistente all’Università della California del Sud cercava un’immagine meno noiosa del solito per provare degli algoritmi descritti in un lavoro da sottoporre a una conferenza, era stanco delle figure noiose utilizzate fino a quel momento e cercava qualcosa di più ``patinato’’. Trovò e scansionò quest’immagine che, da quel giorno in poi, è apparsa centinaia e migliaia di volte in riviste scientifiche ed è di fatto diventata l’immagine test standard per confrontare tecnologie video (come compressione, filtri, correzioni…)
Il mio primo risultato matematico è il teorema di Eckart-Young, una specie di magia in grado di decomporre qualsiasi immagine (cioè qualsiasi matrice) in componenti semplici. Ecco il teorema.
Sia M una matrice m×n. Allora c’è una fattorizzazione di M, detta decomposizione in valori singolari, che prende la forma M = UΣV*.
Inoltre, questi valori singolari ci danno le migliori approssimazioni a basso rango.
Semplificando il giusto, il teorema afferma che potete utilizzare i valori singolari di cui parlavo prima e otterrete le più semplici approssimazioni possibili della matrice. Così facendo potete scoprire pattern semplici nascosti nella matrice e, tipicamente, potete descriverne le caratteristiche più importanti o salienti. Ad esempio, cosa si ottiene se estraggo da Lena queste componenti semplici e allo stesso tempo massimamente informative a livello grafico? Ottenete queste immagini:
Naturalmente, si tratta di una Lena super-semplificata ma spero possiate intuire che l’immagine originale ha molte strisce verticali. Il secondo pattern è questo… il terzo… il quarto…
Aspetta un attimo! Come mai non c’è più traccia della ragazza originale? Avete ragione, non la vedete perché state vedendo le componenti semplici una alla volta. Ecco quello che succede se vi mostro le prime 10 componenti tutte insieme.
D’accordo, questa non è Lena ma abbiamo fatto un ottimo lavoro perchè abbiamo ricostruito la maggioranza della sua struttura geometrica (cioè, le linee verticali, il cappello, l’ovale del viso) utilizzando pochi pattern ultrasemplificati. Per darvi un’idea, tutto questo equivale ad utilizzare solo il 5% dell’informazione contenuta nell’immagine originale. Il rimanente 95% è contenuto nell’immagine piena di dettagli che vedete, una concentrazione di particolari finissimi su un campo grigio.
Adesso siamo pronti per osservare le prime componenti semplici del mosaico di Carlo Scarpa, le costituenti di base del pavimento. È sempre difficile descrivere a parole queste immagini ma, ad esempio, nella prima io vedo isole tremolanti di tessere di marmo arancione su una campitura bianca e una griglia non troppo irregolare di quadratini vivaci rossi e verdi. Forse notate che gli angoli rossi sono sempre immersi in una forma ad elle di colore arancione e, in verità, nella seconda componente vediamo solo la combinazione verde-arancio in aree bianche molto più grandi di prima.
Adesso che disponiamo di un modo per determinare pochi pattern molto informativi, grazie al teorema di EY, come possiamo riprodurre questi pattern? Per il momento, non sappiamo il significato dei pattern e nemmeno come generarli. E, nuovamente, la matematica ci viene in soccorso.
Spesso matematici, ingegneri e informatici devono risolvere problemi difficili. I problemi possono essere difficili per molte ragioni ma sono particolarmente ardui quando non è noto con precisione cosa si cerca e, ad esempio, l’obbiettivo è replicare qualche regolarità presente nei dati passati. Fatemelo ripetere: voglio riprodurre “patterns’’, anche se non è noto comee che cosa significhino. Per problemi del genere si può utilizzare una famiglia di strumenti computazionali chiamati”algoritmi genetici’’.
Un algoritmo genetico è una procedura che imita l’evoluzione, sviluppata da John Holland all’Università del Michigan e dai tedeschi Ingo Rechenberg and Hans-Paul Schwefel. In sostanza, partite da una popolazione completamente casuale di soluzioni, valutate la loro performance, qualsiasi cosa questo significhi, e lasciate che la popolazione evolva in generazioni in cui i candidati migliori figliano altri candidati. Pensate a mamma e papà: possono produrre quello che chiameremmo un figlio, cioè un incrocio, un’altra soluzione, un’altra matrice, un altro pavimento… che potrebbe ereditare da papà e mamma alcune delle loro buone proprietà. Chiaramente si tratta di un processo turbolento e in parte casuale, a volte si migliora a volte si peggiora ma i figli possono essere di ottima qualità e possono anche superare i genitori in alcuni casi.
Sfruttando questa semplice idea, gli algoritmi genetici si sono dimostrati negli anni in grado di risolvere problemi complicati, esattamente come gli esseri viventi sono generalmente in grado di adattarsi con successo alle condizioni ambientali e anche di sopravvivere in situazioni ostili. Inoltre, l’idea è in sé molto semplice e si può applicare a contesti diversi senza che sia necessaria una comprensione approfondita del problema. Bastano, una popolazione iniziale (nel nostro caso, una serie di pavimenti) e modi per lasciarli evolvere alla ricerca di prestazioni migliori, favorendo gli individui di maggiore successo (cioè i pavimenti che più incorporano i pattern semplici fondamentali osservati prima).
Forse, allora, non è sorprendente che gli algoritmi genetici possano essere utili per riprodurre alcuni dei pattern estratti da immagini, anche se non è agevole dire come né descrivere verbalmente il significato di quanto si trova. Quello che vi ho detto di può riassumere come segue: Un po’ di spirito critico aiuta e vale la pena ricordare che:
- non sappiamo che cosa è generato dall’algoritmo nel senso che non siamo in grado di descriverlo verbalmente. Abbiamo utilizzato una scatola nera che non ci consente di vedere il meccanismo ma solo di ispezionare i risultati;
- il pavimento prodotto dall’algoritmo è simile all’originale di Scarpa? Non lo sappiamo. Ma approssima alcune sue proprietà fondamentali e inoltre, ogni volta che uso il programma, si ottengono pavimenti diversi per la presenza di casualità nel processo (ma in un certo senso, tutti i risultati sono fratelli).
E ora vi mostro tre esempi di pavimento-mosaico. Qual’è l’originale di Scarpa? Che siate in grado, o meno, di distinguere quello vero potrebbe avere scarsa importanza e sarebbe già un onore aver creato pavimenti possibili…
Per concludere, possiamo dire di aver capito, intendo capito veramente, quello che Scarpa aveva in mente? Non lo so e anzi, in tutta onestà, credo di no. Tuttavia, abbiamo catturato alcune delle caratteristiche profonde e fondamentali di quella disposizione di tessere, marezzata, cangiante, accogliente e vivace. A uno nato in campagna come me, a pochi km da S. Vito, veder fiorire ``spontaneamente’’ pavimenti così belli pare pur sempre una specie di miracolo.
Scarpa morì nel 1978 a Sendai mentre era in Giappone. Abbiamo ricordato da poco i 40 anni dalla morte. Ci manca il suo genio, la sua umanità e il suo lavoro. Ci manca il coraggio e il talento di spiriti liberi e folli come lui, che sapevano seminare novità e bellezza in una città come Venezia, cosi suggestiva e incantatrice da essere intimidatoria. Scarpa ci manca ma spero che condividiate l’illusione che la matematica possa catturare, o forse solo rubare, alcune delle idee e dei doni che l’architetto ha lasciato a questa città e a noi tutti. Grazie per l’attenzione.
26/10/2019 v. 1.1 (Escher)