Friday, August 17, 2018

Le mie ore giapponesi

Riemergo or ora, felice, dalla lunga marcia che è stata la lettura di "Ore giapponesi" di Fosco Maraini.  Non sempre sento l'urgenza di raccontare quello che trovo dentro un libro, vuoi perché qualcosa lo tengo per me, vuoi perché a volte c'è poco da salvare o degno di nota.  Ma stavolta è diverso e la lettura del libro, dipanatasi per 20 mesi a partire dal gennaio 2017, ha illuminato diversi argomenti divertenti e stimolanti sul Giappone e sui giapponesi che, per vari versi, erano avvolti agli occhi di un occidentale in un esotico splendore (o ignoranza stupefatta che dir si voglia).  È stata una lettura sfiziosa anche per i collegamenti, spesso carsici, con gli uomini che l'hanno resa possibile, a partire dall'autore che è un soggetto pirotecnico per interessi e biografia, fino a Carlo Scarpa che ha acceso la miccia.
La mini-guida della mostra è scaricabile qui
Nel gennaio del 2017 mi trovo a Roma e vado a vedere la mostra al MAXXI "Carlo Scarpa e il Giappone", a cura della brava Elena Tinacci.  La mostra è letteralmente uno spettacolo, racconta di come Scarpa sia rimasto folgorato da questo paese così nitido ed elegante in alcune sue manifestazioni culturali ed architettoniche, tanto che scrive alla mogli Nini:
  Cara,
  qui è tutto bello
  o meglio,
  è più di quel che conosciamo.
  I giardini sono addirittura favolosi.
  Bisognerà ritornare insieme
  l'anno prossimo
  per Osaka.
  Ti piacerà vivere anche
  alla giapponese...
Capita anche a me di dire con frequenza che "è molto bello", nei tentativi di raccontare i viaggi e le esperienze nelle lettere a Cesira.  Dirlo, credo, segnala che un oggetto, un luogo, una visione o una situazione ti rimbombano nell'anima, o almeno stazionano vibrando in quell'intarsio di cuore e di mente che lo recepiscono.

Ma cosa c'entra Maraini in tutto questo?  Nell'archivio di Carlo Scarpa si trova traccia dei libri che il sessantatreenne architetto lesse per preparasi al viaggio del 1969 e si citano "Taccuino Giapponese" di Mario Gromo e, appunto, "Ore Giapponesi".  Il primo libro è quasi introvabile, volendo avrei potuto chiederlo in prestito a una biblioteca torinese ma ci rinunciai perché ho trovato subito Maraini e l'ho scaricato sul Tolino.  Sono proprio le note che via via prendo sul lettore che mi consentono di ritornare anche a distanza di un anno e mezzo su alcuni brani e che certificano che ho impiegato una vita a leggere il tomo (pur inframmezzando con altre cose, specialmente di Primo Levi, come "Il sistema periodico" e la "Chiave a stella").

Se pensate che 20 mesi sono lunghi avete ragione ma è stato un periodo intenso e, di questi tempi, leggere è stato un lusso raro (e d'altra parte, spesso ho l'impressione che convenga sparare cazzate, tweet o slogan in questi tempi tempi vandali, altro che leggere).  A mia parziale scusante, poi, c'è da dire che "Ore Giapponese" è (anche) una sbobba di oltre 800 pagine, un guerra-e-pace che necessita adrelina alta e sostenuta per settimane: montagne di idee, storia, etnografie, trascrizione di parole in giapponese, descrizioni di endocosmi (parola che ricorre tantissimo), filosofia, riflessioni personali e tranches de vie che hanno dell'incredibile.  In altri casi avrei gettato la spugna, centinaia di pagine logorano (potenzialmente) e non mi mancano di sicuro decine di libri nella lista delle cose che voglio leggere prima o poi (vita natural durante, spero)  Ma Maraini-san mi ha stregato: colto, toscanaccio e padre della scrittrice Dacia, sposato alla dolce Topazia, riusciva invariabilmente a scrivere delle perle di tanto in tanto, napalm sulla mia voglia di continuare la lettura pur in presenza di pagine talvolta meno incendiarie.
Il titolo del libro in giapponese, (credo!)
C'era anche la voglia di completare un (piccolo-grande) esperimento mentale, provando a rileggere a distanza di quasi 50 anni le stesse cose che aveva letto Scarpa prima di andare in Giappone, mi è parsa una rara occasione per collegarmi a un'altra personalità che ultimamente mi ritrovo a "studiare" in vari modi e a modo mio.  Quando ricapita di poter rileggere e ricostruire le storie e le visioni che poi, in qualche modo, rivedo incarnate in opere architettoniche come Tomba Brion o evocate in altri lavori che precedono il viaggio del 1969?

Il libro è (forse) un diario di viaggio in cui la famiglia Maraini percorre a metà degli anni cinquanta il Giappone, tracciando un itinerario classico e forse inevitabile per un visitatore.  Credo che se mai andrò in Giappone, cosa che adesso voglio fare più di prima, sarà a mia volta impossibile discostarmi da molti dei luoghi citati: Tokyo, Kyoto, Nara, il Monte Fuji, il Tokaido...  Un buon motivo è certamente quello di spingere l'esperimento mentale al livello tre: Maraini scrive, Scarpa legge, io rileggo e poi magari torno sul luogo del triplice delitto (chiedo venia per l'ardire di accostarmi a Carlo e Fosco, è solo un post sperduto in mezzo ai campi della blogosfera!)  Con la scusa del viaggio con la sua famiglia, Maraini ripercorre anche la storia del paese, della sua cultura e filosofia e chi più ne ha più ne metta.

Non sapevo una mazza di Giappone, poco più che tatami, futon, geisha, karakiri, kabutocho (che per me era l'indice della borsa e invece è un quartiere), avevo visto il durissimo film di Scorsese "Silence" con Liam Neeson nei panni di un gesuita che non se la passa per niente bene e finisce per abiurare, una volta avevo avuto uno studente che proveniva da Waseda University, la barzeletta del becchino che si chiama ki-ruma kata-ossi ...  Sono brandelli di comprensione a caso, briciole di una torta che non avevo mai visto né assaggiato.  Il libro di Maraini ha rimesso a posto le poche tessere di cui disponevo e ha riempito molti spazi bianchi.

In ordine sparso e senza che il povero Maraini sia responsabile dei beccanotti che certamente scriverò, adesso ho qualche idea sullo shinto, la religione/filosofia vitalista e intrisa di profonda reverenza nei confronti della natura che spiega "l'atteggiamento vigorosamente positivo ed affermativo nei riguardi della vita"; ho trovato illuminanti le descrizioni di buddismo e Zen, tanto diverse dalla tipica forma mentis cartesiana degli europei per il tentativo di unire in un olismo cosimico uomo e natura o, nel caso dello Zen, per rifuggire anche dalla razionalità, favorendo l'intuizione che deriva da anni di pratica (di tiro con l'arco?)  e che porta a un flash che forse si chiama illuminazione ed è descritto cripticamente in tanti haiku; un tantinello ho capito chi sono i Tokugawa, dinastia di perdenti che hanno chiuso sé stessi e il loro pese in un isolamento estremo e autoreferenziale, distruggendo ogni contatto con l'esterno per due secoli e mezzo (mutatis mutandis, anche alcuni politici e fanno lo stesso, sono bravi solo loro e gli "stranieri" portatori di diversità sono untori); fare la geisha richiede anni di lavoro (non nel senso di quello più vecchio del mondo!), per imparare a danzare, cantare, discorrere amabilmente e ingentilire il mondo (ok, il testosterone di noi maschi proverbialmente attribuisce a queste signore, in via d'estinzione nel Giappone moderno, immaginifiche capacità erotiche); ci sono pagine bellissime in cui Fuosko-san (i giapponesi evidentemente non sanno dire Fosco) parla dell'eleganza innata di questo popolo, del loro less is more che ha lasciato il segno su Wright e Scarpa, della cura dei giardini, in cui tutto -cielo, terra ed acqua- sembra naturale ed è frutto di sforzi immani, dei loro simbolismo potente e privo di fronzoli; allo stesso tempo, capisco di più anche il delirante culto della gerarchia, dell'ordine e dell'obbedienza che ha prodotto esempi estremi di esaltazione fanatica, seppuku (auto-sbudellamento con katana) rituali e simili; ci sono parole incise nella mia memoria (ehm, le ho appena riguardate nelle note del Tolino, è l'età!)  come samsara, il vortice delle illusioni; satori, l'illuminazione; zen, la santa follia, "donde viene, dove va, cosa significa?"; kami, "un punto, una cosa, una persona in cui si manifesta in maniera augusta una carica più intensa di quel segreto divino ch'è nascosto per ogni dove intorno a noi", li avete incontrati anche voi, vero? zen, di nuovo, esperienza che "chi non l'ha vissuta non sa di che si tratti, chi l'ha provata non sa come dirlo", messi ben, no?  il ben noto kamikaze, letteralmente "il vento degli dei", con tanto di episodio di folle linearità nipponica: nella primavera del '45 gli americani bombardano Nagoya, spezzoni incendiari scientificamente distribuiti, brucia tutto, le case sono fatte di legno e shogi di carta, almeno 10000 morti, il Giappone da mesi è alla deriva ma non si pensa nemmeno alla resa nonostante non esista nemmeno più difesa.  Una notte un piccolo aereo si alza in volo e punta dritto, sempre più su, verso un B52, sempre più in alto fino a quando il moscerino si schianta sul bestione di ferro e lo fa precipitare.  Dalla città (ricordo che è quel che resta, una distesa di tizzoni ardenti) si alza un enorme urlo, migliaia di abitanti gridano all'unisono un "Banzai!" che si sente a kilometri di distanza.
Mi avvio alla conclusione con due ultime riflessioni su questo libro caleidoscopico ed ebbro allo stesso tempo di lucidità e passione.  Maraini descrive un campionario di amici che incantano: da Giorgio, l'esteta intellettuale, sempre avanti di due passi, il cui figlio Enrico vive nella faglia esistenziale collocata fra Europa e Sol Levante, che ha un flirt con Jane l'americana dopo aver lasciato la sciccosissima Tamako (certamente una gran sventola mentale e fisica ma veramente veramente troppo complicata...) a Somi, al secolo Adriano Somigli, fiorentino con quella profondità finanche dolorosa di pensiero, anima e umanità, che appartiene alla sua terra nelle espressioni migliori.  La descrizione che ne dà Fosco è una perla:
Credo che il nocciolo finale nella valutazione d'un uomo sia la bontà di cui egli è capace: l'intelligenza, la bravura, la sicura volontà ci riempiono di meraviglia, ma che cosa lasciano col passar degli anni?  Somi è carico di difetti eppure non si può fare a meno di amarlo, perché sotto tutti i suoi atteggiamenti dannunziani e satanici, con tutti i suoi paradossi, è buono.
Ma la parte più straniante e sorprendente del testo arriva verso la fine, quando nei ricami del viaggio la famiglia Maraini ritorna al Tempaku, il palazzo prigione in cui furono rinchiusi alcuni italiani dopo l'8 settembre del 1943, quando di colpo diventammo nemici dei giapponesi.  Da amici a traditori nel giro di un giorno di settembre, per colpa di cose avvenute fra Roma e Napoli, ve l'immaginate come l'hanno presa i giapponesi nel bel mezzo della guerra?  No, forse non lo immaginate, perché le pagine del libro che descrivono la prigionia sono state per me così dolorose che ho raggiunto i miei limiti e ho dovuto sospendere la lettura per riprendermi (anche se quando sono carburato mi reputo lettore caterpillare e incapace di pause).  Topazia, il cui diario semplice e diretto è virgolettato più volte nel testo, dice ad esempio che:
15 febbraio, il tempo passa, la nostra situazione non muta...  sto male, sempre più debole.  Sono stata alzata quattro giorni, ma una sera di nuovo oppressione, mancanza di respiro e quasi svenuta.  Da allora a letto, e se mi alzo per più di dieci minuti sto male.  E debolezza.  Fame, fame, vuoto, languore; non riesco a pensare ad altro...  19 febbraio, ha nevicato (zero o al massimo 4 in camera la sera), freddo.
E poi:
Ci si dovrebbe consolare pensando alle altre migliaia (o milioni) di persone al mondo che stanno come noi o peggio di noi...  ma non  si riesce a pensare a niente di consolante quando si soffrono crampi di fame e fa male la testa e si vanno a cercare i rifiuti nella cassetta delle immondizie
Fosco, Topazia, le bambine e gli altri italiani, fra cui Somi e Giorgio, devono vivere per mesi con 130 grammi di riso a testa e poco più, "limite precario fra sussistenza e disintegrazione", e soggetti a restrizioni di ferocia inaudita e, a suo modo, tristemente tipica in Giappone.  Le pagine mi ricordano nitidamente quelle di Primo Levi a proposito della sua prigionia ma, per qualche motivo e per quanto possibile, ciò che è descritto in "Ore Giapponesi" è ancora più inumano e crudele.

Constato che, forse, tutte le guerre sono in qualche tratto identiche, consentendo a "uomini" di infierire sui loro simili abdicando per presunte cause di forza maggiore alla loro essenza e ruzzolando verso vergogna e barbarie senza limiti.  Alla fine, come per Levi, la salvezza viene da rischiosi furti di cibo, detti "recuperi", e traffici vari: o muori di stenti o rinunci alla legalità che sarà pure figlia della civiltà ma à la guerre comme à la guerre, è il minimo che si possa fare.  Il punto di svolta è il famoso radio-discorso dell'imperatore che annuncia la resa e comunica di non essere un dio (un kami, a dir il vero), lasciando storditi i suoi sudditi che avrebbero probabilmente difeso il loro Tenno anche coi moncherini una volta spezzettati: i Maraini vengono liberati, sono vivi, dimagriti e ridotti male, ma vivi. Inizia per il Giappone un rivolgimento mai visto e quest mezzo secolo lascerà tracce indelebili, dentro e fuori, sul paese.

Quel bischeraccio di Fosco, nonostante tutto questo (e altro che non vi dico, non solo loro sono capaci di gesti impressionanti e sanguinolenti) non ha mai perduto un amore per il Giappone che non pare avere limiti:
Com'è strano!  Ritornando cogli occhi ai luoghi, e con la memoria ai tempi, in cui si è duramente sofferto, invece di provare un senso di fastidio t'invade una profonda commozione, e fra le più dolci, che riesco soltanto a qualificare come religiosa.  Un senso cioè che lì, allora, si è partecipato significativamente al grande mistero; che lì, allora, bene e male, tempo e non tempo, vita e morte, amore ed odio, i grandi arcani segreti, le grandi arcane potenze che regolano il corso delle cose visibili ed invisibili, mordevano, agivano su di noi con voltaggio scarnito e maschio, tale da lacerare quell'opaco velo di convenzioni, di fiacche abitudini, che li oscurano nei tempi ordinari.
Ecco, ci ho provato e sono in vena di autoassoluzione a priori, un libro così multiforme non si presta a post e argomenti rettilinei. E, d'altra parte, l'autore stesso si chiede nell'incipit
Mi perdoneranno il lettore, o la gentile lettrice, se qui presento loro un'opera definibile ormai come una sfoglia, una pasta millefoglie, un'autentica lasagna di libro?
["Ore Giapponesi" è stato scritto nel 1956, soffermandosi su fatti e circostanze del 1938-1946; l'edizione che ho letto è del 2000, Corbaccio, e contiene delle glosse di Maraini che aggiorna alcuni capitoli menzionando i cambiamenti occorsi fra la meta degli anni '50 e l'inizio del XXI secolo. Ringrazio anche Luisa Bienati che in tempi non sospetti mi ha fatto conoscere il funambolico bestiario foschiano della "Gnòsi delle fanfòle" da cui non mi sono più ripreso.  Che la lettura vi sia lieve!]