Monday, September 16, 2024

Il filo di Agnieszka (Auschwitz zwei)

Sta in campana, Paolo, questo è un argomento che merita rispetto. È un viaggio che volevo da sempre in questo non-luogo e anche questa memoria si deve infilare fra i luoghi reali che menziono in queste pagine. Non serve ordine, né logica, né rigore, è già tanto se riesco a dare qualche idea (e in realtà, più che mai, scrivo per me, per non dimenticare). 

A. Ci provo seguendo la traccia lasciata da Agnieszka, la guida che ci recupera nell'androne del Museo alle 9.30. Da ora in poi Agnieszka è A, una lettera che punta alto, quasi un'alpha come un punto di ripartenza costante. La prima frase che dice è "I tour ad Auschwitz sono sempre puntuali, come i treni" e ci mettiamo in moto che non sono nemmeno le 9.31, "i cinque cha mancano ci raggiungeranno sul percorso". Lo dice in un bell'inglese, forse un po' metallico, parla con volume naturale in un trasmettitore che diffonde le sue parole nei nostri auricolari di ottima qualità, possiamo alzare il volume quanto ci pare. Rifletto sulla battuta di A, sarà una delle pochissime che fa in 6 ore e rotti di visita in cui spara fatti, storie, date, nomi, "Why? Because...", senza sosta senza pace senza pietà quasi senza respiro. Dopo un'ora di questo trattamento sono un po' nauseato, me l'avevano detto che era una visita dura.

Nesssun lavoro, nessuna libertà, solo vergogna...

Overturism. In molti punti di Auschwitz senza auricolare non ci si può sentire, c'è troppa gente, molti giovani, un fiume di persone inonda gli spazi chiusi in cui tutto rimbomba. Io ho la fortuna di avere prenotato uno study day di 6 ore, siamo in 15, seguiti da un educatore, che è appunto A. Il nostro tour è più approfondito, a fine giornata avremo camminato quasi ininterrottamente quasi tutto il tempo. Entriamo anche in spazi in cui i visitatori che hanno meno tempo non ci sono, mi sfilo le cuffiette e ascolto la voce di A al naturale, mi pare un modo per ritrovare elementi di normalità in un contesto assurdo. Mi è parso strano, ma non ho conosciuto nessuno degli altri 14, ho scambiato qualche parola con tre di loro: una signora americana, probabilmente di origine sudamericana, che ora vive a Miami dopo essere passata per il freddo di Chicago; mamma e figlia israeliane, la prima ha i capelli bianchi e nonostante una certa età cammierà per km stoicamente nei suoi scarponcini da trekking. Nei passaggi all'aperto o fra un blocco (capannone) e l'altro vedo spesso persone avvolte nella bandiera a strisce azzurre con la stella di Davide, indossata come quando si vince una medaglia all'olimpiade. 

Foto. Scatto decine d'immagini, inizialmente con un vago senso di disagio. Che fotografo a fare? Mi sono chiesto se il mio è turismo dell'orrore, quello che porta la gente a visitare luoghi segnati da morte e tragedie. Qui è successo l'indicibile e mi sento anche uno che, vergognandosi un po', sbircia dalla serratura. Ma voglio capire. Cosa c'è da capire? La prendo un attimo larga: i matematici usano i casi particolari per illuminare la strada, è spesso molto utile studiare le situazioni estreme per afferrarne la struttura e provare poi a esaminare gli altri casi, quelli "normali". Auschwitz è arrivato a fondo corsa, spingendo alcuni "uomini" a pensieri, parole, opere e omissioni incommensurabili (sì, fra poco finirò gli aggettivi, il KL ti toglie anche le parole). Io faccio modelli e voglio capire: che cosa avevate in testa? Quale flusso di ragionamenti ha guidato le scelte? In quale modo si può sterilizzare l'orrore al punto da essere massacratore in orario di lavoro e genitore affettuoso a colazione e cena? Da scienziato quale tento di essere, so che per capire bisogna guardare, di solito basta la curiosità ma in questo caso serve anche una buona dose di coraggio perché i nazi hanno il potere d'infettare il mondo col dubbio, "sei anche tu, almeno un po', come noi", in fondo in fondo. E non vedo altri vaccini che soffocare il groppo d'impotenza che sale in gola (solo nella prima ora, mentre A ci travolge con una cascata di notizie; poi trovo una specie di giusta distanza) e guardare. Le foto? Decido di farle e uso il cellulare come un block notes visuale, lo faccio spesso e le foto, dritte o sbilenche, belle o brutte, sono tappe di un percorso. Le sto scorrendo adesso finché scrivo e ho fatto bene a farle.

Tutti hanno un nome, sei milioni di nomi.  
Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi
e tutto era scritto nel tuo libro;
i miei giorni erano fissati,
quando ancora non ne esisteva uno. Salmo 138

Numeri. Il KL è un efferato ripasso di conteggi, ma qui è diverso dal solito. Di solito basta contare le cose ma ad Auschwitz servono gli zeri, gli ordini di grandezza, è meglio usare il logaritmo in base 10 altrimenti ti perdi nei dettagli, che poi erano uomini e donne e bambine e bambini e vecchi giovani ebrei zingari deboli ammalati polacchi slavi religiosi, tutti dettagli... Ora, per un attimo, ha senso osservare l'aggregato. Un milione e mezzo di gasati o bruciati o fucilati; un milione e centomila ebrei svaniti; l'80% di queste persone sono rimaste qui meno del tempo della mia visita (6 ore) e scese dalla rampa hanno solo avuto il tempo di camminare fino alla camera a gas numero 1 o numero 2 o numero 3 o numero 4 o numero 5; novantamila persone ammassate in baracche in muratura (prima) e di legno (poi), fino a 1500 persone per un capannone che dovrebbe contenere 70 persone; 7-8 persone per letto (parlo sempre del 20% che è riuscito a vedere il bancale di legno chiamato letto, contendendolo agli altri 6-7 prigionieri); il campo di Auschwitz è grande sei ettari, Birkenau centosettanta ettari... Alcuni numeri me li ricordo bene, altri meno, ma vi confesso cha sta vacillando la mia incrollabile fiducia nell'asetticità delle cifre. Il KL ti toglie anche la matematica, se continua così resto muto, senza parole e senza numeri... E invece no: tonnellate di capelli umani usati per fare filati, migliaia di valigie effetti personali scarpe pettini oggetti, settecento posti in una camera a gas grande, migliaia di litri di liquame da sversare, tonnellate di cenere umana da smaltire coi camion o con le chiatte e così via.

Agnieszka, mamma e figlia d'Israele.

Storia. A è assertiva, quando una delle due signore anziane del gruppo le racconta di un parente dice che uno storico ha bisogno di dati, documenti, carte, riscontri, foto, i racconti non servono. A: "In all honesty, we don't care why [the nazis] took photos, propaganda, administration, or left records. We use them as evidence and proofs of crimes". La sua fermezza è totale, immagino che lei e le persone che lavorano alla conservazione e alla memoria siano ormai abituati ai controargomenti dei negazionisti (che tanto sono squalificati scientificamente quanto hanno presa su parte della società).

Mentre tutte le organizzazioni criminali nascondono i loro misfatti, i nazi hanno lasciato montagne di registrazioni, verbali, lettere e ordini scritti nonché migliaia di foto, spesso scattate dagli stessi aguzzini, con tanto di data, timbro, didascalia descrittiva. Resto allibito di fronte a questi aguzzini: mafia e Brigate Rosse, tanto per fare piccoli esempi, usavano i pizzini o immergevano tutto nel segreto ma questi hanno disseminato il mondo con i frutti di una burocrazia che lascia stupefatti, in un flusso di documenti contabili e organizzativi pauroso e sterminato (una specie di super MEPA dell'annientamento, coi conti, preventivi e fatture del costo dello Zyklon B e la valutazione d'impatto delle novità sperimentate per derattizzare presto e bene più subumani possibile). Un esercito di funzionari, segretari e burocrati passava le giornate a istruire pratiche, scrivere e inoltrare queste carte, "vogliate cortesemente fornire 200 contenitori di cianuro..." o "gentilmente mandateci la vs migliore offerta per rimpiazzare 4 forni con carrello retrattile, seguono specifiche...". Negli ultimi giorni di gennaio del 1945, forse anche le SS hanno capito che era meglio distruggere le prove e hanno tentato di bruciare quel che potevano o ammazzare i testimoni ma c'era talmente tanta roba che, nonostante lo zelo e le croci di ferro appuntate sul petto, non hanno fatto in tempo. (Ho chiesto dove stava Primo Levi, ma Auschwitz III - Buna  sono riusciti a distruggerlo e non è rimasto nulla).

Le dimensioni dell'obbrobrio si capiscono bene solo camminandoci dentro per 6 ore: decine di fabbricati, uffici, locali per le più varie "funzioni", magazzini come Canada 1. Così era chiamato un blocco di Auschwitz dove si ammassavano le proprietà degli ammazzati in attesa di essere trasferite alla banca centrale del reich millenario (se erano anelli, gioielli o otturazioni in oro) o alle manifatture (capelli e qualsiasi altra cosa). Con ironia, il luogo era chiamato Canada, che a quei tempi denotava il paese di bengodi. Anche a Birkenau c'era il Canada 2 ma hanno bruciato anche questo prima che arrivasse l'armata rossa il 27 gennaio 1945 (sì, è il giorno della memoria).

A non fa sconti, sterminare su vasta scala richiede uno sforzo enorme, produce fra l'altro tonnellate di ceneri e frammenti di resti umani di cui disfarsi (l'ho già detto, scusate), ettolitri di merda da spalare e portare nelle fogne (non perché ai nazi piacesse l'igiene ma un'epidemia di tifo avrebbe rallentato il ritmo e abbassato gli indicatori di performance), pone problemi come il grasso umano che colava dalle cataste di cadaveri in fiamme e ardeva al punto da alzare le temperature, impedendo alla forza lavoro di avvicinarsi.  Lo vedete il linguaggio che uso? Non oso, non mi permetto, non voglio pensare che sembra quasi normale e forse non dissimile da quello di altri documenti che leggo e scrivo ogni giorno: problema, analisi, soluzione. 

Nulla di personale. Chiedo ad A se riesce a fare due turni in un giorno. Io mi riferivo al carico emotivo che devi sopportare quando ripeti simili dettagli per molte volte. Forse, come io mi sono "abituato" a questo spazio in mezza giornata, così lei ha trovato il modo di dire le cose senza abradersi l'anima ogni volta. Ma A mi dice "no, sono una freelance e dopo sei ore che parlo mi fermo", è una risposta interessante e prima che pensiate che è un mostro (cosa che sarebbe sommamente ingiusta) lasciate che vi dica cosa mi ha detto quando le ho chiesto "ci sono state rivolte? perché non si ribellavano?" (la prima domanda era evidentemente scema: come si fa a fare 6+6 ore di visita in giorno?)

Mi risponde che dirà qualcosa sul tema in seguito ma continua osservando che è difficile ribellarsi quando hai viaggiato per giorni in un carro bestiame (e per pura fortuna non sei stato asfissiato immediatamente e incenerito), non sai dove sei, in un paio di giorni sei un morto di fame che si regge a stento in piedi, travolto dalle botte e dal freddo; quando il tempo passa, poi, ti chiedi se ribellandoti vuoi scappare (ma dove?) o solo morire con dignità (ma quale?) e capisci che non è una scelta personale, dato che una fuga, o solo un'infrazione da nulla, è foriera di punizioni collettive atroci per un'intera baracca o settore o campo. In alcuni momenti, finché parla, perde il suo aplomb professionale.

In effetti, quando arriviamo alla camera a gas 4, A ci racconta dell'unica rivolta nota, quella dei Sonderkommando il 7 ottobre del 1944, mi lancia qualche occhiata d'intesa finché spiega che sono riusciti a distruggere un crematorio, ma alla fine tutti i sonder sono stati giustiziati dal primo all'ultimo, impiccate anche le 4 polacche che li avevano aiutati. L'unico altro momento in cui si accende è quando ci dice che loro conoscono bene i tedeschi e i russi e affiora una rabbia trattenuta. Ho perso il conto del numero di polacchi uccisi in qualche momento da tedeschi e russi, ma siamo oltre al milione. Capisco che i tizzoni del risentimento non sono ancora spenti del tutto.

Birkenau. Finiamo la visita del KL Auschwitz I alle 12.50, alle 13.10 c'è la navetta che arriverà alle 13.18 a Birkenau, A: "Io comincio la visita alle 13.20, ci vediamo all'ingresso, cammineremo almeno due ore". Schizzo al ristorante, panino tonno e mais, tazza di americano, prendo addirittura la navetta delle 13.00 e arrivo alle 13.08 per godermi 12 minuti dodici di pausa e respiri profondi, addentando e trangugiando s'intende. Puntualmente, si parte entrando nel cancello più fotografato della shoah (anche se il ferro battuto di "macht" non scherza, sono tutte immagini incise a fuoco nella memoria collettiva). 

È una bella giornata, di quelle poetiche, cielo azzurro, nuvole bianche, temperatura tenue, è un contrasto lacerante e penso nitidamente che camminare per ore con la pioggia avrebbe aggiunto pena a tristezza e dolore. Ma sono fortunato e il sole, raro da queste parti in questa stagione, non ci ha mai abbandonato. Questa era la cosa bella. L'altra cosa è che Birkenau è sterminato, 170 ettari, a perdita d'occhio baracche o quel che ne resta (i pilastri, muri e tetto sono venuti giù), diviso in un reticolato con 4 settori principali, coi boschetti di betulle (!) in fondo a nascondere le camere a gas con crematori incorporati. Per darvi un'idea, i parchi minerali dell'ILVA, l'acciaieria più grande d'Europa, quelli che bisognava coprire perché inquinano disperdendo ossidi e polvere di carbone, si estendono per 70 ettari.

Sono stufo di scrivere, mi fermo qui, non ho nemmeno la forza di provare a chiudere in modo leggero. Di leggerezza ce n'é poca in mezzo ai campi di Auschwitz II - Birrkenau. A ci lascia all'ingresso alle 15.40, "Can I post on some social platform my appreciation for your work?", "No, I dont have any social", "Can we take a photo together?", a denti stretti accetta. Grazie, Agnieszka, per la foto e per il filo cui ci siamo aggrappati per tutto il giorno.


ps 1. Credo che meriti leggere Auschwitz: Ultima Ratio of the Modern Age e vedere le foto di Tomasz Lewandowski, che scrive anche un pezzo molto interessante sulla forma che si fa funzione pura, perversa e diabolica nell'achitettura dei campi di sterminio.

Autore Tomasz Lewandowski

ps 2. Oświęcim non è Auschwitz e forse i nomi diversi consentono di mantenere un minimo di distanza. Di polacchi in giro ce n'erano pochissimi, anche perché i tedeschi li avevano deportati altrove per creare la zona d'interesse, quella che serviva ad accogliere il personale tedesco per allargarsi a est. In segno di rispetto per la comunità locale sono andato a vedere il Museo del Castello di Oświęcim, dove si legge pure la storia di un concittadino che ha combattuto a Monte Cassino nel 1944.

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