Thursday, August 27, 2015

Giob market

L'università è un'istituzione, bzzz..., fondata sul lavoro. L'università riconosce a tutti bzzz bzzz il diritto al lavoro e promuove... bzzz creeeck bizzzbziiizzzzz...

Non si capisce un granché, la linea è disturbata e a un certo punto sembrava che leggessero la costituzione di un ateneo. Mah. Provo a reagire alla sensazione, percepita troppo spesso di recente, che l'unico job market sia quello a stelle e strisce.  Su questo tema sono disponibili strepitosi elenchi di suggerimenti: uno l'ha prodotto Loriana, una collega che ho quasi eletto a modello esistenziale tanto è venerabile, brava, frizzante e capace di lavorare come una ruspa. Un altro lo trovate qui, a cura di Peter Iliev, leggete entrambi, non possono fare male. Ma oggi vi parlo del giob market,  quello dei poveri, e proverò a sfatare la leggenda che l'unico job per cui vale la pena vivere sia americano e che, al contrario, i giob che trovate da noi siano brutti, sporchi e cattivi.

Il giob market italiano è l'insieme delle opportunità di lavoro post dottorato offerte dai circa 90 istituti universitari della penisola.  90 "atenei" non sono pochi, alcuni sono di prim'ordine, alcuni sono sotto casa, in tutte le sedi trovate facilmente pasta, olio d'oliva e pomodori (la triade che denota alta qualità della vita, credeteci o meno!). Il problema è che i bandi non sono pubblicati in un sito centralizzato e bisogna cercarseli col sudore della fronte in 90 siti web, stando attenti a non perdere scadenze ravvicinate e a rispettare norme burocratiche diverse da sede a sede.

Cercarsi un lavoro non implica necessariamente andare a Chicago, Boston o San Francisco in Gennaio, a spese proprie, e fare molte interviste sperando di vincere prestigiosi fly-outs (biglietto pagato per andare a fare un seminario presso la sede che vi sta esaminando).

Cercarsi un lavoro significa anche affinare la nobile arte di scandagliare i siti coi bandi per assegni di ricerca (il nome è lassativo, lo so, specie se confrontato con figate come post-doc o financo tenured). Una differenza c'è: i contratti che puoi vincere là sono spesso pluriennali (3 o 5 anni) mentre qua se va bene vinci un contratto annuale rinnovabile per un altro anno. Poi tocca partecipare ad altri bandi.

Per fare un'intervista quà o là è meglio essere preparati, capaci nell'arte della sintesi, eye-contact (quella roba per cui guardate chi vi ascolta/vi parla e non le slides; normale, a casa e al bar lo fate sempre), saper descrivere il vostro lavoro e contestualizzarlo nella letteratura, sorridere il giusto senza strafare ed evitare di indisporre l'interlocutore, avere l'ascella e l'alito in ordine...

Rileggete le frasi precedenti: grondano di un'ovvietà veramente indecente.  In cosa il vostro comportamento in USA (interview) dovrebbe differire da quello che tenete di fronte a una commissione per un assegno (colloquio)? Se fate schifo, sembrerà che anche la vostra ricerca sia debole, a meno che un interviewer/commissario non dica frasi come "ma i paper sono meglio..."; se siete stati bravi e charmant, anche la vostra ricerca sembrerà più interessante, anche se c'è sempre quello che dice "si, la racconta bene ma i lavori sono troppo semplici/complessi/generali/dettagliati..."

Tutta l'enfasi che vedo sul job market mi sembra a volte un modo viscidamente subliminale per dire che solo lavorare là ha senso: ha certamente molto senso vincere un posto per 5 anni a NYU, UCLA, Yale e altri posti simili; ne ha forse meno vincerlo in oneste istituzioni di media classifica sperse nelle steppe del Tennessee (o altro stato a caso); ha anche parecchio senso vincere un assegno di ricerca nel giob market italiano e andare in un ateneo nazionale, dove magari lavorano persone civili, che pubblicano, che sono state in giro per il mondo più di molti americani. O no? Quello che ha pochissimo senso è andare svaccati e impreparati all'interview o colloquio che sia, mostrando da un lato o dall'altro dell'oceano la vostra parte peggiore, disorganizzata e maleodorante.

Sottolineo qualche altra cosa, spesso spezzatino di vita vissuta:
  • Il job market paper è frequentemente il centro dell'interview e quindi dovrebbe essere bello e anche fotomodello e lo dovete conoscere bene. Sento dire che dovrebbe essere a un nome solo e, possibilmente, di prossima pubblicazione su rivista A+. Essere l'unico autore semplifica le cose ma non sono certo che sia indispensabile in una scienza che ormai vede quasi sempre team di molte persone lavorare insieme. Di sicuro, un solo nome aiuta ad evitare che vi dicano che è merito del coautore... ma se ve lo dicono forse vi avrebbero detto qualcos'altro anche se il paper fosse stato a un nome solo.
    Ho sempre faticato a capire come un interviewer, che vede anche una dozzina di candidati bravi in un giorno, possa capire al volo se un working paper finirà su JET o Econometrica, tritacarne con tassi di accettazione sotto il 10%. Certo, ci sono interviewer bravi ma sono scommesse e se c'imbroccano è una mandrakata!
    Eppoi, lasciate che lo scriva, mi sta sulle balle questo modello "gallina dall'uovo d'oro": l'idea che assumi la gallina perché sganci l'uovo proprio nel tuo pollaio nei 3 anni in cui ci sta, sento un cattivo odore (di schito di gallina, in Veneto). Anche perché se ti hanno assunto come ovaiola/o e per qualche motivo tu non fai l'uovo A+ nei tempi prescritti, coerentemente ti danno un calcio in culo, baby. È questo l'ateneo in cui volete lavorare? Anche si, se è NYU, UCLA, Yale e così via; ma l'idea vi dovrebbe piacere meno in generale. Ci sono atenei, anche italiani, che non trattano la gente come galline estrogenate e, talvolta, attendono che uno maturi e dia qualche frutto a suo tempo.
  • Al tipico colloquio italiota la commissione guarda anche altre cose. Di sicuro le guardo io. È incomparabilmente meglio se i giob market papers che allegate alla domanda in Italia (notate il plurale) sono già pubblicati formalmente. La legge prescrive di valutare le pubblicazioni e i titoli, non il potenziale delle uova non ancora deposte. Alla fine si stila un punteggio in cui si prendono tanti punti per ciascuna pubblicazione, ripeto pubblicazione, non idee brillanti vergate su promettenti working papers.
    È raro presentarsi con pubblicazioni già stampate di livello A+ o anche A o B. Ma qualche pubblicazione formale su rivista scientifica, anche medio-bassa, anche su libro editato, anche su atti di convegno aiuta la commissione a darvi dei punti. Se uno presenta solo working papers, anche molto promettenti, finisce spesso malino.
    Osservate che non ho detto che bastano paper mediocri per avere il posto e se un candidato ha pubblicazioni migliori vi scavalca, ovvio. Sto cercando di dire che, IMHO, serve un portafogli di cose (un paper su rivista, un articolo su volume, due working papers) che mostri alla commissione che avete valore e prospettive; che avete già fatto qualcosa; e che gli consenta di darvi i punti per farvi arrivare primi nella graduatoria finale.
  • Volendo si potrebbe discutere di quale sistema sia meglio (do per assodato che gli stipendi in USA sono meglio dei nostri... è come sparare sulle croce rossa). È meglio assumere uno con un working paper buono o uno con tre giob-pubblicazioni già stampate? Ditemelo voi: capirei sia l'azzardo di prendersi il primo che la comparsa di un articolo del sempre-sia-lodato G. A. Stella: tiro ad indovinare il titolo, "Commissione prende un bociassa senza pubblicazioni al posto di trentaduenne con 3 articoli su rivista e 4 assegni già vinti". Poco importa se gli articoli fanno schifo, il pezzo di Stella mostra come nessuna alternativa domini l'altra in alcun modo sensato.
  • Il giob market italiano ed europeo è meno rutilante di Chicago sotto il gelo, è più faticoso e precario. Andare all'estero è cosa buona e giusta e si guadagna di più. Ma vale la pena riflettere, siamo economisti e ci sono costi fissi e sunk cost emotivi, familiari e personali. Se siete come Tex Willer, che dorme nella prateria in posti sempre diversi, girate pure il mondo; ma non siete obbligati mandare in vacca la vostra vita se non siete adatti a fare il globetrotter (perché vi mancano amici, famiglia, amore, pasta, olio, pomodoro...)
    Mi sento una vecchia ciabatta intessuta di risorgimentale romanticismo ma lasciate che vi ricordi che potreste anche lavorare nel vostro paese e migliorarlo: avremo anche pasta, olio, pomodoro e molto altro ma non ci mancano di sicuro le occasioni per  contrastare mostruosità e vizi tipici del Bel Paese. Ricordo infine che molti fra gli italiani che lavorano all'estero mi fanno tenerezza per quanto soffrono e desiderano di tornarsene a casa loro: tu pensi che siano super-fighi e loro si consumano tristemente nella nostalgia...
Concludo con un GANTT diagram (maronna, ormai parlo come loro!) che mostra che i brutti tempi di adesso non siano diversi da quello che succedeva una decina e rotti d'anni fa. Lo dico per tirare su di morale e dissipare l'idea che questi sono i tempi più bui che la storia accademica ricordi. Nota metodologica: sono dati relativi a uno che conosco (sample size = 1), un tizio inaffidabile con gli occhiali neri che scrive pure post strani in un blog sottosopra.

Anno 0: laurea nel nord-est
Anno 1: supplenza in un liceo del nord-est
Anno 2: vince borsa di dottorato (fieramente segato in quattro concorsi, vinto il quinto)
Anno 2-4: PhD nel nord-est
Anno 5: all'ISTAT per un anno, sede regionale nel nord-est,  nonostante le pressioni per stare in università senza stipendio ad aspettare ("Ma che male può farmi un anno all'ISTAT? Vi saluto!'')
Anno 6: ricercatore nel nord-est

A conti fatti, posto fisso a 31 anni; poi, associato a 37; nel doman non c'è certezza e la speranza è l'ultima morire ;-)

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