FBF. Luciana è al FBF da una decina di giorni seguita dall'equipe di Antonio che combatte una pericardite cronica relativamente rara come nessun altro sa fare in Italia (e certamente non sanno fare in alcuni ospedali dalle nostre parti, dove vari medici sono terrorizzati e reagiscono proponendo misure invasive che non servono a nulla). Qui abbiamo trovato un fine perlage di competenze tecniche di prima classe, empatia ai confini della realtà e efficienza. Sono partiti immediatamente con farmaci sperimentali con nomi battaglieri da valchiria come Anakirna e per poco Luciana non finiva in un trial denominato Raphsody, dove si somministra il rinolacept, un'anakirna "potenziata" che pare il non plus ultra dell'antifiammatorio. Al FBF si respira aria buona (ehm, strano da dire in questi giorni sospettosi in cui pare che tutto sia ammorbato e si respira piano, quasi ad evitare di fare il pieno), il morale è alto, il reparto è colorato e concede viste dei campetti di calcetto di via Moscova da un lato, e sulla torre di Unicredit dall'altro. Luigi percorre km su e giù per i corridoi e porta scritto sulle spalle "Sono Luigi. Se mi perdo riportatemi al piano del FBF". Fanno il lavoro, lo fanno bene, credo abbiano assorbito lo stile diretto e cordiale di Antonio. Da lui, pur senza conoscerlo, ho imparato molto: credevo di essere bravino con gli studenti, offrendo supporto, chiamate telefoniche, flessibilità ma non c'è proprio storia: lui risponde agli email di notte e qualche volta in pochi minuti, manda whatsapp ai pazienti e ai familiari anche durante i weekend, ti avvolge quasi a suggerire che è sempre (quasi) tutto ok. Mi ricorderò di questa mirabolante apertura le prossime volte che la prima reazione vorrebbe essere, anche comprensibilmente, di fastidio di fronte a richieste varie, talvolta fuori luogo e fuori tempo. D'altra parte, per mettere giù due frasi di questo periodo, ``la pazienza cura tutto'' e, da Gandhi, "perdere la pazienza vuol dire perdere la battaglia". Grazie Antonio per questa lezione e per aver rimesso Luciana in carreggiata.
Short let. Stavolta scegliamo con airbnb in zona chinatown. Al momento della prenotazione, che era incredibilmente meno di una settimana fa e già sembra che sia passata un'eternità, quasi non sapevo che c'era chinatown a Milano, non collocavo via Nicolini su nessuna mappa mentale o geografica e la psicosi da COVID-19 non aveva ancora insabbiato del tutto gli ingranaggi della potente macchina economica del nord Italia. Lala, una collega di cui vado fiero e che mi pizzica sempre quando twitto da Milano, mi ha accolto con la consueta arguzia e verve online, facendomi sentire a mio agio. In qualche frangente, mentre provavo la bella senzazione di camminare per via Paolo Sarpi, con le sue vetrine bilingui, mi è parso di stare dentro l'occhio di un ciclone. A poco a poco però tutta la vitalità della zona si è quasi interamente spenta, un po' per colpa delle ordinanze che hanno imposto di chiudere i bar e altri locali alle 18.00 ma, soprattutto, per la decisione volontaria e collettiva dei connazionali di origine cinese di chiudere le serrande, cercando di tranquilizzare "gli altri" ed evitare contatti con non si sa chi. Ho trovato questa scelta così responsabile e piena di senso civico da oscurare tutti quelli che straparlando hanno seminato paura, razzisimo e intolleranza.
Salvini, per dire, avrebbe fatto meglio a prendere esempio, chiudendo la serranda e l'account twitter per qualche giorno, invece di spargere deliranti proclami sulla necessità di paralizzare un paese, buttare a mare gli immigrati, paventare un armageddon dando la colpa al governo pur di raccattare i voti di 4 odiatori non lontani dalla sociopatia. Su altro fronte, è stato adrenalico e quasi animato da una soprannaturale vitalità immobiliare anche l'approccio all'appartamento, collocato in un complesso nuovo di zecca, una specie di enorme corte chiusa cui si affacciano diversi condomini di bel design moderno e "milanese". Forse le signore delle pulize avevano fretta, ma il pavimento di gres grigio-beige impietosamente mostrava qualche macchia e impronta e alcuni dettagli indicavano una certa qual approssimazione. Insomma, sporco incancrenito non era ma, forse, Mastro Lindo non sarebbe rimasto folgorato. Bene, abbiamo chiesto in prima battuta che venissero a dare una ritoccata, fatto; poi, replica per chiedere che sistemassero lo scarico del lavandino che impiegava 20 minuti per svuotarsi, fatto anche quello nel secondo giorno. Mi soffermo su questi particolari per dire che le cose possono anche partire così così ma poi, con serietà, si sistemano. Ed è solo l'inizio. Il terzo giorno (che, come sappiamo, ha bei quarti di nobilità fin dai tempi biblici...) ci chiudiamo fuori da casa lasciando le chiavi nella toppa. Era da un decennio che non facevamo questa minchionata che rende potenzialmente difficile aprire la porta anche se si recupera un secondo mazzo. Comunque, mi faccio una passeggiata fin presso la Galleria Vittorio Emanuele e recupero questo mazzo di riserva, tutti mi dicono che non ci sono problemi anche se provo a ripetere che l'altra chiave ostruiva la toppa. Ritorno stringendo il mazzo salvifico nella tasca, per essere certo di non perderlo, ma questo stato di riacquisita tranquillità dura poco. In effetti la chiave non va fino in fondo e non gira, nonstante tentativi e sacramenti vari. Ritelefono ail'host, che mi parla in un italiano screziato di cinese, "è un problema... prova con una carta... il portocino blindato costa 3500 euro e se chiamo un fabbro..." Panico, altro che coronavirus: 3500 euro??? Ma cos'è questa storia della carta?
"Prova con la carta, accostandola al pomello" e tenta di farmi vedere cosa fare in una videochiamata whatsapp. Io capisco poco o nulla, credo che la maniglia sia come quelle di certi alberghi che percepiscono il chip di una carta, ma non è così e penso che è una follia che la mia carta di credito, col mio chip, apra una porta blindata di Milano grazie e qualche forma di domotica sconosciuta a noi polentoni. "No, no così! Le mando un video..." Credeteci o meno, mi guardo il video e capisco che la carta serve per "scassinare" la porta (comprendo anche sempre meglio che le immagini valgono più di mille parole, una cosa che dico sempre anche a lezione quando insegno a fare i grafici). Istruito dal video (ecco il link), imbraccio la mia carta del supermercato PAM (che non ha nemmeno il chip) e al secondo tentativo la infilo esattamente all'altezza giusta, facendo scattare il nottolino e aprendo la porta. Il vostro umile blogger adesso sa aprire un portocino rinforzato lombardo con una semplice carta PAM di ottima qualità e rigidezza, veramente perfetta. E io che pensavo che servisse per gli sconti e le offerte. Prendetemi pure per i fondelli, è vero che "era aperto" e non ce l'avrei mai fatta senza video e se non fosse rimasta la chiave dentro. Ma poi, entusiasmato, ho fatto delle prove, ci ho messo 5 secondi scarsi, tutto sta nel sapere l'altezza dove infilare la carta. Per concludere sappiate che ci ho pensato seriamente prima di mettere il link al video ma poi mi sono convinto che è meglio sapere le cose, anche quelle brutte, visto che comunque i malviventi ne sanno più di noi; bisogna sempre chiudere con due giri di chiave sennò quei bellissimi portoncini pieni di sbarre di ferro si aprono di fronte al primo ganassa che passa; infine, guardatevi bene anche dai professori e da chi ha in portafoglio una carta PAM di prima classe (nel senso che è fatta di plastica robusta, ma secondo me basta e avanza anche la carta Venezia).
W la libertà di stampa! Milano è la città di Indro Montanelli, sommo epigono di quella milanesità che io ho imparato a rispettare da piccolo, quando mio papà, inflessibilmente, iniziava la giornata col controcorrente del "il Giornale''. poi siamo passati al Corriere, altro simbolo della Milano austera, analitica e sobria che tutti vorremmo perché intanto "il Giornale" era passato dalle stelle alle stalle, dilapidando un'eredità morale che avrebbe meritato miglior sorte. Fotografo la statua di Montanelli, che sta nei giardini a lui intitolati non lontano dal FBF, ha sulle ginocchia una Lettera 22: certo che qui i simboli dell'Italia di cui andare fieri non mancano. O almeno così pare a un campagnolo in libera uscita nella metropoli. A un certo punto, passeggiando per via Solferino ho realizzato che ero nella via del quotidiano più letto d'Italia. A dir la verità, ho visto l'insegna del Corriere e ho smesso di chiedermi ripetutamente ``ma perché mi ricordo di questa via Solferino?''
È stato istruttivo vedere i giornali parlare di quello che stava accadendo. Questo è solo un blog e non mi dilungherò troppo in analisi che lascio ad altri ma ho visto i danni di titoli che evocano la parola strage in relazione a un'influenza.
W la libera stampa, certo, ma ci costa anche caro avere "giornalisti" che terrorizzano i deboli di cuore e di spirito. Guardatevi le prime pagine di "Libero"e "il Giornale" di questi giorni: io sono rimasto di sasso. Mentre tutti provavano a contenere l'ansia, mantenere lucidità e approntare al meglio misure varie (anche se personalmente le reputo eccessive), questi titoli buttano taniche di napalm sul fuoco, riaccendendo le nostre paure peggiori, fomentando teorie del complotto e facendo strame della realtà.
Devo dire che anche il Corriere, che pure brilla per aplomb e suona la carica dell'impegno e della responsabilità ogni giorno, a volte mi è sembrato un filo troppo angosciante: a tutta pagina, "Altri 4 morti ma i focolai sono gli stessi", oggi 25 febbraio. Ok, 4 morti, ma leggendo bene le pagine interne si scopre che sono purtroppo anziani spesso ultra-ottantenni, con gravi problemi di salute pregressi, in dialisi o già in rianimazione per infarto. Siamo sicuri che parliamo di sindrome influenzale? O meglio, è veramente allarmante o sorprendente sapere che persone dalla salute così compromessa non ce l'abbiano fatta dopo aver contratto un'influenza insidiosa? Io ero a Milano in questi giorni e, proprio per andare a prendere il mazzo di chiavi di scorta, sono passato per la Galleria Vittorio Emanuele vedendo decine di persone senza mascherina e qualcuno che la portava. Non è esattamente la sensazione che dà la foto, spettacolare nella sua grandangolarità, che campeggia in prima pagina e credo che il lettore di Voghera possa immaginarsi torme di turisti mascher(in)ati o trascinati in barella e flebo via dallo struscio di via Monte Napoleone dove sono caduti in preda a influenza fulminante... Più o meno sulla stessa linea, leggo che nei supermercati gli scaffali sono vuoti dopo che qualcuno ha fatto incetta di acqua e beni di prima necessità, immagino dopo aver letto a colazione "Libero" e "il Giornale". Va bene, ci sta pure. Ma io sono stato in centro per quattro giorni e il mio Carrefour aperto 7/24 aveva gli scaffali traboccanti di tutto quello che un umano, anche tendente al gourmet, può volere. Capisco la necessita di fare notizia e, in effetti, scrivere "Gli scaffali sono pieni come al solito" non è una gran novità ma mi riprometto di rifletterci due volte quando vedo la prossima volta una foto da Wuhan desertificata: non intendo minimizzare, ma le notizie sono brandelli di realtà che non colgono il tutto, né potrebbero a dir la verità, sono faretti che illuminano un angolo e, forse, rendono meno visibili per contrasto altre cose che pure stanno intorno. Di sicuro, sempre più, abbiamo bisogno di libera stampa, anche di "Libero" e "il Giornale" e di buoni giornalisti che evidentemente però sono merce rara in certe testate.
Casa. Arrivo a Treviso alle 14.45, dopo questa tirata milanese allietata, pur nella mestizia virale di questi giorni, dagli spaghetti "semplici" e buonissimi di Eataly e dai chiffari salati di "Panarello" fra Corso Garibaldi e Moscova. Grazie anche a voi per aver aiutato a farci sentire Myland quasi come casa nostra.
PS. Lala, ci sono stato da "Parigi Dolci" in via Messina ma i ravioli li proverò un'atra volta! Anche lui era dignitosamente chiuso "per ferie". Chapeau.
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