Saturday, April 25, 2020

Didattica a distanza, davvero andrà bene?

Da un po' di tempo seguo con interesse le notizie sulla Didattica a Distanza (DaD) in quest'emergenza da covid-19 e i vari filoni in cui si è incamminato il dibattito. Capisco la retorica del "facciamoci forza", a colpi di #lascuolanonsiferma, la ritengo sempre molto più utile di chi assume toni catastrofisti e spara ad alzo zero su tutto quel che si fa. Eppure mi pare che troppo spesso le analisi di questo momento manchino di elementi essenziali e perdano di vista, a cavallo di questa o quella urgenza, alcuni punti fondamentali. In questo mi accodo al recente appello formulato dall'Accademia della Crusca, che sente "il dovere di intervenire sui rischi di una cattiva interpretazione delle nuove modalità d’urgenza connesse soprattutto con l’insegnamento a distanza".

Erogare didattica di qualità in questo momento è assolutamente necessario, sia nella scuola dell'obbligo che, salendo di livello, a livello universitario. Un primo aspetto utile è capire quanto sia difficile fornire lo stesso ammontare orario di didattica e un'efficacia paragonabile a quanto si faceva prima: parlo di ore di lezione e capacità di assimilare contenuti veicolati tramite video collegamenti vari. Un campione molto piccolo, ma forse indicativo, di vicini e amici mi racconta che le figlie iscritte alla scuola media possono lavorare forse due-tre ore al giorno in collegamento, il resto sono compiti per casa da svolgere in autonomia. Sottolineo che i genitori, quelli che se lo possono permettere naturalmente, sono spesso impegnatissimi a seguire e motivare gli studenti a continuare a lavorare in queste condizioni dilatate e strane. Io stesso ho aiutato mio nipote a preparare una verifica di matematica per il liceo scientifico, constatando quanto questo periodo abbia reso esile la frequenza delle lezioni e indebolito quel collegamento con i compagni, i professori e la materia che rende fluido l'uso di concetti e tecniche apprese anche solo qualche settimana fa. Inoltre, tanto per darvi un'idea, ho sperimentato cosa vuol dire insegnare con certe piattaforme. Nello specifico ho usato Zoom, la killer application del momento e, pur non essendo un analfabeta digitale, mi sono scontrato con difficoltà insospettate nell'insegnamento della mia materia. Può darsi che in altre discipline le cose vadano meglio per motivi strutturali (forse non serve scrivere su una "lavagna", forse basta parlare, forse...) ma quello che ho dovuto fare per ripassare i logaritmi lo vedete sotto.

Scrivere col mouse sulla "lavagna" di Zoom non è una passeggiata e, con fatica, ho scribacchiato geroglifici forse leggibili che spero siano meglio di niente... Ma la lezione sarebbe stata un'altra cosa (e, chiaramente, se avessi avuto una tavoletta grafica e chissà che altri ausili tecnologici avrei lavorato meglio: ma quanti insegnanti e studenti possono accedere a queste risorse? Una riflessione su come essere inclusivi è quella di Chiara Saraceno su https://www.lavoce.info/).

Le cose all'università potrebbero non essere dissimili anche per altri motivi. Insegno un corso di "Financial literacy" incluso in un minor destinato a studenti di lettere, lingue e scienze, nel tentativo di fornire ai non addetti ai lavori (quali dovrebbero essere invece gli studenti di economia) competenze di cittadinanza economica e risparmio di grande utilità pratica anche a chi per mestiere non si occuperà di finanza d'assalto e investimenti. L'occasione è utile per capire quel che si fa di DaD in diversi ambiti disciplinari. Gli studenti mi riferiscono che, a seconda dei casi, c'è di tutto: chi fa lezioni in diretta streaming con una serie di programmi diversi e una processione di "mi sentite? mi vedete? spegnete i microfoni! accendete il video! aspetta che mi ricollego..."; chi assegna solo compiti per casa, "leggete da x a y, capitolo z", fine della lezione, sic!; chi registra brevi video o commenti di slides powerpoint pieni di elenchi puntati e, in qualche caso, una lezione da 90 minuti è sostituita da 15-20 minuti di materiale; e c'è sempre il bandito che non fa proprio nulla (c'era anche prima, nulla di nuovo sotto il sole) Va bene, #lascuolanonsiferma, meglio avanti anche piano che indietro tutta ma ci vuole attenzione e credo che sovente sia un #lascuolafaquelchepuo di cui pure vado fiero. In ogni caso, la sana proposta di recuperare un po' di tempo d'aula in estate, alle superiori e all'università, meriterebbe di essere messa in pratica, anche se constato che ritornare in spiaggia sembra obbiettivo molto più importante!

Un secondo tema riguarda gli esami. Paolo Giordano ha sottolineato in un bel pezzo sul Corriere quanto la maturità sia una tappa esistenziale di grande importanza psicologica e un rito di passaggio per i giovani che escono dalle superiori. Concordo con la proposta di valorizzare la prova e non "avvilirla" in un collegamento a schermo (proviamoci, anche se le circostanze non sono semplici). Antonio Polito ricorda il valore, per grandi e piccini, di tornare a scuola almeno per chiudere questo tranche de vie e salutare gli amici:
Dal Corriere della Sera del 25 aprile 2020 e https://twitter.com/antoniopolito1/status/1253910160386527232
Poi ci sono gli esami universitari che sono problematici per le enormi difficoltà di garantire l'integrità della procedura e la privacy delle parti. Non è un lusso: "integrità" vuol dire, banalmente, che non si copia all'esame (anche se lo si può fare in molti modi).  Questa è una cosa seria e richiede attenzione: è evidente che in un esame online diventa arduo anche solo identificare un candidato (io stesso, in presenza di poca banda, ho faticato a leggere solo nome e cognome su un'immagine sgranata e fluttuante di una carta d'identità esibita a video; più che un'identificazione è stato un viaggio onirico nell'immaginazione). È altrettando evidente che la verve italica si sbizzarisce immediatamente nell'escogitare i modi più ingegnosi per "fregare" il sistema e abbondano aneddoti di claque di suggeritori nascoste alla telecamera, chat "sotto" il collegamento, whatsapp e batterie di telefoni aggiuntivi per l'"aiutino", enclopedie Treccani tenute sulle ginocchia che tanto non si vedono, post-it a profusione incollati sul bordo del monitor... Si possono anche usare trucchi più techno e raramente ho visto tanto interesse per tecniche come il "docking" o applicazioni come TeamViewer, che consentono di manovrare un computer a distanza. Tutto ciò sarebbe pure esilarante se non fosse triste ed allarmante. La nostra scuola avrà anche tanti difetti ma dovremmo esigere che la misurazione dei risultati ottenuti e il premio allo sforzo fatto fossero solidi, attribuibili a un singolo ben indentificato e non a vantaggio dei furbetti.

Una "soluzione", utilizzata anche in prestigiose università estere, è quella di sostituire un esame con la scrittura di un saggio breve open-book che può essere consegnato dopo qualche settimana, con garanzia di voto minimo. Il senso della cosa mi sfugge pericolosamente: mi dite quale studente intelligente perde il suo tempo a studiare se di fatto è in vigore un "liberi tutti" come questo? In altri casi, le proposte sono quasi più idiote e si basano sull'idea futurista di sterilizzare i rischi con la velocità: se diamo poco tempo allo studente, quest'utimo faticherà di più a copiare e, quindi, rimpiazziamo uno scritto di analisi matematica o anatomia patologica che durava due ore e 20 minuti, con un test a crocette da 20 minuti (sono esempi realistici). Bello, no? Avremo non più patologi o analisti ma... velocisti! Lo vorreste un medico, ma anche un consulente finanziario o un ingegnere, che ha fatto gli esami in questo modo? Sempre ammesso e non concesso che li abbia fatti lui e non il gruppo di autoaiuto di amici e colleghi su whatsapp che lavorava per lui durante l'appello (a pagamento?) In ogni caso che senso ha questa sveltezza? Vogliamo Mennea delle crocette e Speedy Gonzales della ricerca su google oppure futuri professionisti competenti sui fatti, capaci di ragionare se gli dai il tempo di farlo e di produrre analisi sensate e ponderate?

Proprio sulle modalità d'esame si innesta anche un rinnovato interesse per le questioni relative alla privacy. Alcuni sistemi di sorveglianza automatica (in inglese, machine proctoring) registrano audio, video e schermo dello studente in modo che si possa (provare a) verificare se ha barato. Di colpo, e a mio avviso troppo strumentalmente, si sono levate voci sulla pericolosità di filmare gli studenti e sui pericoli di raccogliere dati personali. Non importa se i sistemi rispettano le regole del GDPR, se i dati sono accessibili solo al docente per le sole finalità connesse all'esame, se vengono cancellati come da normativa dopo qualche settimana, se gli atenei firmano un DPA (data protection agreement) col fornitore del servizio e se gli utenti prendono visione di un informativa dettagliata. Non importa. "Se si registra, l'esame così non si può fare" è la frase spesso pronunciata da docenti e rappresentanti degli studenti, gli stessi magari che due minuti prima hanno fatto il check-in su Foursquare, rivelando la loro posizione urbi et (anche agli) orbi, o concedono a dozzine di app il saccheggio sistematico dei loro dati senza che le tutele siano minimamente paragonabili. Non sono insensibile alle preocupazioni relative all'uso e all'abuso dei dati, servono ovviamente cautele e discernimento, vedete questo pezzo scoppiettante di Filippomaria Pontani.


La protezione della privacy però non si ottiene inibendo la raccolta di dati e l'adozione della tecnologia quando questa è utile (si pensi ad esempio al potenziale in ambito sanitario o all'utilità di tracciare i contagiati in situazioni come quella che stiamo vivendo). La privacy si tutela invece, come previsto da una legislazione intelligente, concordando le regole con chi raccoglie i dati, imponendogli un uso ben determinato delle informazioni, il divieto di diffusione e la conservazione per un tempo limitato con garanzie di sicurezza. A volte, mi pare, si perde di vista l'obbiettivo finale, la correttezza della prova d'esame, e ci si sofferma sulla minuzia: ad esempio, hanno suscitato timore le tecniche di eye-tracking che questi sistemi applicano ai video per segnalare chi fra gli studenti volge troppo lo sguardo altrove e non guarda il monitor o il testo d'esame. Il ragionamento è che se guardi sempre da un'altra parte, forse stai cercando e ottenendo aiuti illeciti. Fatemi dire che, dopo aver sperimentato personalmente la cosa in 3500 esami sorvegliati da questi software, questo eye-tracking... non serve quasi a nulla! Ciascuno dei miei studenti aveva centinaia di segnalazioni automatiche del tipo "non guarda lo schermo" e, dopo qualche minuto di riflessione e di visione dei filmati, ho capito quello che sapevo da sempre: è perfettamente normale che uno che scrive a mano o su una tastieta durante un esame alzi gli occhi, si fermi, distolga lo sguardo, mugugni e dondoli la testa cercando le parole o facendo una somma a mente. Risultato? La segnalazione basata sull'eye-tracking, più che essere l'incarnazione del Grande Fratello mi è parsa uno slogan da marketing e di fatto è finita nel cestino, con buona pace della sbandierata intelligenza (?) artificiale che avrebbe dovuto scovare i reprobi. Ma ciò non toglie che "vedere" il comportamento e lo schermo di chi svolge la prova e sentire il suo audio fornisce qualche debole garanzia e offre uno strumento, in assenza di altro, per contestare eventuali azioni viscide e furberie.

[Dopo la pubblicazione del post, Antonella Scarfò ha scritto questo pezzo su Business Insider Italia. Ci sono considerazioni che forse completano quanto scritto qui]

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