Monday, September 16, 2024

Il filo di Agnieszka (Auschwitz zwei)

Sta in campana, Paolo, questo è un argomento che merita rispetto. È un viaggio che volevo da sempre in questo non-luogo e anche questa memoria si deve infilare fra i luoghi reali che menziono in queste pagine. Non serve ordine, né logica, né rigore, è già tanto se riesco a dare qualche idea (e in realtà, più che mai, scrivo per me, per non dimenticare). 

A. Ci provo seguendo la traccia lasciata da Agnieszka, la guida che ci recupera nell'androne del Museo alle 9.30. Da ora in poi Agnieszka è A, una lettera che punta alto, quasi un'alpha come un punto di ripartenza costante. La prima frase che dice è "I tour ad Auschwitz sono sempre puntuali, come i treni" e ci mettiamo in moto che non sono nemmeno le 9.31, "i cinque cha mancano ci raggiungeranno sul percorso". Lo dice in un bell'inglese, forse un po' metallico, parla con volume naturale in un trasmettitore che diffonde le sue parole nei nostri auricolari di ottima qualità, possiamo alzare il volume quanto ci pare. Rifletto sulla battuta di A, sarà una delle pochissime che fa in 6 ore e rotti di visita in cui spara fatti, storie, date, nomi, "Why? Because...", senza sosta senza pace senza pietà quasi senza respiro. Dopo un'ora di questo trattamento sono un po' nauseato, me l'avevano detto che era una visita dura.

Nesssun lavoro, nessuna libertà, solo vergogna...

Overturism. In molti punti di Auschwitz senza auricolare non ci si può sentire, c'è troppa gente, molti giovani, un fiume di persone inonda gli spazi chiusi in cui tutto rimbomba. Io ho la fortuna di avere prenotato uno study day di 6 ore, siamo in 15, seguiti da un educatore, che è appunto A. Il nostro tour è più approfondito, a fine giornata avremo camminato quasi ininterrottamente quasi tutto il tempo. Entriamo anche in spazi in cui i visitatori che hanno meno tempo non ci sono, mi sfilo le cuffiette e ascolto la voce di A al naturale, mi pare un modo per ritrovare elementi di normalità in un contesto assurdo. Mi è parso strano, ma non ho conosciuto nessuno degli altri 14, ho scambiato qualche parola con tre di loro: una signora americana, probabilmente di origine sudamericana, che ora vive a Miami dopo essere passata per il freddo di Chicago; mamma e figlia israeliane, la prima ha i capelli bianchi e nonostante una certa età cammierà per km stoicamente nei suoi scarponcini da trekking. Nei passaggi all'aperto o fra un blocco (capannone) e l'altro vedo spesso persone avvolte nella bandiera a strisce azzurre con la stella di Davide, indossata come quando si vince una medaglia all'olimpiade. 

Foto. Scatto decine d'immagini, inizialmente con un vago senso di disagio. Che fotografo a fare? Mi sono chiesto se il mio è turismo dell'orrore, quello che porta la gente a visitare luoghi segnati da morte e tragedie. Qui è successo l'indicibile e mi sento anche uno che, vergognandosi un po', sbircia dalla serratura. Ma voglio capire. Cosa c'è da capire? La prendo un attimo larga: i matematici usano i casi particolari per illuminare la strada, è spesso molto utile studiare le situazioni estreme per afferrarne la struttura e provare poi a esaminare gli altri casi, quelli "normali". Auschwitz è arrivato a fondo corsa, spingendo alcuni "uomini" a pensieri, parole, opere e omissioni incommensurabili (sì, fra poco finirò gli aggettivi, il KL ti toglie anche le parole). Io faccio modelli e voglio capire: che cosa avevate in testa? Quale flusso di ragionamenti ha guidato le scelte? In quale modo si può sterilizzare l'orrore al punto da essere massacratore in orario di lavoro e genitore affettuoso a colazione e cena? Da scienziato quale tento di essere, so che per capire bisogna guardare, di solito basta la curiosità ma in questo caso serve anche una buona dose di coraggio perché i nazi hanno il potere d'infettare il mondo col dubbio, "sei anche tu, almeno un po', come noi", in fondo in fondo. E non vedo altri vaccini che soffocare il groppo d'impotenza che sale in gola (solo nella prima ora, mentre A ci travolge con una cascata di notizie; poi trovo una specie di giusta distanza) e guardare. Le foto? Decido di farle e uso il cellulare come un block notes visuale, lo faccio spesso e le foto, dritte o sbilenche, belle o brutte, sono tappe di un percorso. Le sto scorrendo adesso finché scrivo e ho fatto bene a farle.

Tutti hanno un nome, sei milioni di nomi.  
Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi
e tutto era scritto nel tuo libro;
i miei giorni erano fissati,
quando ancora non ne esisteva uno. Salmo 138

Numeri. Il KL è un efferato ripasso di conteggi, ma qui è diverso dal solito. Di solito basta contare le cose ma ad Auschwitz servono gli zeri, gli ordini di grandezza, è meglio usare il logaritmo in base 10 altrimenti ti perdi nei dettagli, che poi erano uomini e donne e bambine e bambini e vecchi giovani ebrei zingari deboli ammalati polacchi slavi religiosi, tutti dettagli... Ora, per un attimo, ha senso osservare l'aggregato. Un milione e mezzo di gasati o bruciati o fucilati; un milione e centomila ebrei svaniti; l'80% di queste persone sono rimaste qui meno del tempo della mia visita (6 ore) e scese dalla rampa hanno solo avuto il tempo di camminare fino alla camera a gas numero 1 o numero 2 o numero 3 o numero 4 o numero 5; novantamila persone ammassate in baracche in muratura (prima) e di legno (poi), fino a 1500 persone per un capannone che dovrebbe contenere 70 persone; 7-8 persone per letto (parlo sempre del 20% che è riuscito a vedere il bancale di legno chiamato letto, contendendolo agli altri 6-7 prigionieri); il campo di Auschwitz è grande sei ettari, Birkenau centosettanta ettari... Alcuni numeri me li ricordo bene, altri meno, ma vi confesso cha sta vacillando la mia incrollabile fiducia nell'asetticità delle cifre. Il KL ti toglie anche la matematica, se continua così resto muto, senza parole e senza numeri... E invece no: tonnellate di capelli umani usati per fare filati, migliaia di valigie effetti personali scarpe pettini oggetti, settecento posti in una camera a gas grande, migliaia di litri di liquame da sversare, tonnellate di cenere umana da smaltire coi camion o con le chiatte e così via.

Agnieszka, mamma e figlia d'Israele.

Storia. A è assertiva, quando una delle due signore anziane del gruppo le racconta di un parente dice che uno storico ha bisogno di dati, documenti, carte, riscontri, foto, i racconti non servono. A: "In all honesty, we don't care why [the nazis] took photos, propaganda, administration, or left records. We use them as evidence and proofs of crimes". La sua fermezza è totale, immagino che lei e le persone che lavorano alla conservazione e alla memoria siano ormai abituati ai controargomenti dei negazionisti (che tanto sono squalificati scientificamente quanto hanno presa su parte della società).

Mentre tutte le organizzazioni criminali nascondono i loro misfatti, i nazi hanno lasciato montagne di registrazioni, verbali, lettere e ordini scritti nonché migliaia di foto, spesso scattate dagli stessi aguzzini, con tanto di data, timbro, didascalia descrittiva. Resto allibito di fronte a questi aguzzini: mafia e Brigate Rosse, tanto per fare piccoli esempi, usavano i pizzini o immergevano tutto nel segreto ma questi hanno disseminato il mondo con i frutti di una burocrazia che lascia stupefatti, in un flusso di documenti contabili e organizzativi pauroso e sterminato (una specie di super MEPA dell'annientamento, coi conti, preventivi e fatture del costo dello Zyklon B e la valutazione d'impatto delle novità sperimentate per derattizzare presto e bene più subumani possibile). Un esercito di funzionari, segretari e burocrati passava le giornate a istruire pratiche, scrivere e inoltrare queste carte, "vogliate cortesemente fornire 200 contenitori di cianuro..." o "gentilmente mandateci la vs migliore offerta per rimpiazzare 4 forni con carrello retrattile, seguono specifiche...". Negli ultimi giorni di gennaio del 1945, forse anche le SS hanno capito che era meglio distruggere le prove e hanno tentato di bruciare quel che potevano o ammazzare i testimoni ma c'era talmente tanta roba che, nonostante lo zelo e le croci di ferro appuntate sul petto, non hanno fatto in tempo. (Ho chiesto dove stava Primo Levi, ma Auschwitz III - Buna  sono riusciti a distruggerlo e non è rimasto nulla).

Le dimensioni dell'obbrobrio si capiscono bene solo camminandoci dentro per 6 ore: decine di fabbricati, uffici, locali per le più varie "funzioni", magazzini come Canada 1. Così era chiamato un blocco di Auschwitz dove si ammassavano le proprietà degli ammazzati in attesa di essere trasferite alla banca centrale del reich millenario (se erano anelli, gioielli o otturazioni in oro) o alle manifatture (capelli e qualsiasi altra cosa). Con ironia, il luogo era chiamato Canada, che a quei tempi denotava il paese di bengodi. Anche a Birkenau c'era il Canada 2 ma hanno bruciato anche questo prima che arrivasse l'armata rossa il 27 gennaio 1945 (sì, è il giorno della memoria).

A non fa sconti, sterminare su vasta scala richiede uno sforzo enorme, produce fra l'altro tonnellate di ceneri e frammenti di resti umani di cui disfarsi (l'ho già detto, scusate), ettolitri di merda da spalare e portare nelle fogne (non perché ai nazi piacesse l'igiene ma un'epidemia di tifo avrebbe rallentato il ritmo e abbassato gli indicatori di performance), pone problemi come il grasso umano che colava dalle cataste di cadaveri in fiamme e ardeva al punto da alzare le temperature, impedendo alla forza lavoro di avvicinarsi.  Lo vedete il linguaggio che uso? Non oso, non mi permetto, non voglio pensare che sembra quasi normale e forse non dissimile da quello di altri documenti che leggo e scrivo ogni giorno: problema, analisi, soluzione. 

Nulla di personale. Chiedo ad A se riesce a fare due turni in un giorno. Io mi riferivo al carico emotivo che devi sopportare quando ripeti simili dettagli per molte volte. Forse, come io mi sono "abituato" a questo spazio in mezza giornata, così lei ha trovato il modo di dire le cose senza abradersi l'anima ogni volta. Ma A mi dice "no, sono una freelance e dopo sei ore che parlo mi fermo", è una risposta interessante e prima che pensiate che è un mostro (cosa che sarebbe sommamente ingiusta) lasciate che vi dica cosa mi ha detto quando le ho chiesto "ci sono state rivolte? perché non si ribellavano?" (la prima domanda era evidentemente scema: come si fa a fare 6+6 ore di visita in giorno?)

Mi risponde che dirà qualcosa sul tema in seguito ma continua osservando che è difficile ribellarsi quando hai viaggiato per giorni in un carro bestiame (e per pura fortuna non sei stato asfissiato immediatamente e incenerito), non sai dove sei, in un paio di giorni sei un morto di fame che si regge a stento in piedi, travolto dalle botte e dal freddo; quando il tempo passa, poi, ti chiedi se ribellandoti vuoi scappare (ma dove?) o solo morire con dignità (ma quale?) e capisci che non è una scelta personale, dato che una fuga, o solo un'infrazione da nulla, è foriera di punizioni collettive atroci per un'intera baracca o settore o campo. In alcuni momenti, finché parla, perde il suo aplomb professionale.

In effetti, quando arriviamo alla camera a gas 4, A ci racconta dell'unica rivolta nota, quella dei Sonderkommando il 7 ottobre del 1944, mi lancia qualche occhiata d'intesa finché spiega che sono riusciti a distruggere un crematorio, ma alla fine tutti i sonder sono stati giustiziati dal primo all'ultimo, impiccate anche le 4 polacche che li avevano aiutati. L'unico altro momento in cui si accende è quando ci dice che loro conoscono bene i tedeschi e i russi e affiora una rabbia trattenuta. Ho perso il conto del numero di polacchi uccisi in qualche momento da tedeschi e russi, ma siamo oltre al milione. Capisco che i tizzoni del risentimento non sono ancora spenti del tutto.

Birkenau. Finiamo la visita del KL Auschwitz I alle 12.50, alle 13.10 c'è la navetta che arriverà alle 13.18 a Birkenau, A: "Io comincio la visita alle 13.20, ci vediamo all'ingresso, cammineremo almeno due ore". Schizzo al ristorante, panino tonno e mais, tazza di americano, prendo addirittura la navetta delle 13.00 e arrivo alle 13.08 per godermi 12 minuti dodici di pausa e respiri profondi, addentando e trangugiando s'intende. Puntualmente, si parte entrando nel cancello più fotografato della shoah (anche se il ferro battuto di "macht" non scherza, sono tutte immagini incise a fuoco nella memoria collettiva). 

È una bella giornata, di quelle poetiche, cielo azzurro, nuvole bianche, temperatura tenue, è un contrasto lacerante e penso nitidamente che camminare per ore con la pioggia avrebbe aggiunto pena a tristezza e dolore. Ma sono fortunato e il sole, raro da queste parti in questa stagione, non ci ha mai abbandonato. Questa era la cosa bella. L'altra cosa è che Birkenau è sterminato, 170 ettari, a perdita d'occhio baracche o quel che ne resta (i pilastri, muri e tetto sono venuti giù), diviso in un reticolato con 4 settori principali, coi boschetti di betulle (!) in fondo a nascondere le camere a gas con crematori incorporati. Per darvi un'idea, i parchi minerali dell'ILVA, l'acciaieria più grande d'Europa, quelli che bisognava coprire perché inquinano disperdendo ossidi e polvere di carbone, si estendono per 70 ettari.

Sono stufo di scrivere, mi fermo qui, non ho nemmeno la forza di provare a chiudere in modo leggero. Di leggerezza ce n'é poca in mezzo ai campi di Auschwitz II - Birkenau. A ci lascia all'ingresso alle 15.40, "Can I post on some social platform my appreciation for your work?", "No, I dont have any social", "Can we take a photo together?", a denti stretti accetta. Grazie, Agnieszka, per la foto e per il filo cui ci siamo aggrappati per tutto il giorno.


ps 1. Credo che meriti leggere Auschwitz: Ultima Ratio of the Modern Age e vedere le foto di Tomasz Lewandowski, che scrive anche un pezzo molto interessante sulla forma che si fa funzione pura, perversa e diabolica nell'achitettura dei campi di sterminio.

Autore Tomasz Lewandowski

ps 2. Oświęcim non è Auschwitz e forse i nomi diversi consentono di mantenere un minimo di distanza. Di polacchi in giro ce n'erano pochissimi, anche perché i tedeschi li avevano deportati altrove per creare la zona d'interesse, quella che serviva ad accogliere il personale tedesco per allargarsi a est. In segno di rispetto per la comunità locale sono andato a vedere il Museo del Castello di Oświęcim, dove si legge pure la storia di un concittadino che ha combattuto a Monte Cassino nel 1944.

Sunday, September 15, 2024

In viaggio verso il nulla (Auschwitz ein)

On the eve of WWII, about 1,500 Jews lived in Trzebinia (Yiddish: Chebin), a community bubbling with Chassidic life and Torah learning, Zionism and a pioneering spirit, political parties and youth movements. 
Volevo un titolo diverso, volevo a "Road to nowhere" ma è troppo tardi e l'ho già usato in un altro post. Il nulla di cui parlo è un abisso della storia, dell'umanità, del pensiero e dell'azione. Viaggio verso un a-topia, un non luogo che adesso ha un nome diverso, Oświęcim, da quello che tutti conoscono. Penso che sia una benedizione avere un altro nome, evitando il marchio d'infamia per eccellenza e la corona lorda di sangue del capostipite di tutte le atrocità, Auschwitz.

Ryanair fino a Cracovia, in treno verso il centro fino a una stazione periferica dove google maps mi dice di cambiare. Scendo a Krakow Bronowice dove devo attendere 40 minuti il locale che mi porterà alla mia undestinazione. Ci deve essere un senso carsico di assenza in questo posto che ha del metafisico, ci sono 4 binari, due per la metropolitana leggera, uno per i treni verso il centro e il mio per i treni verso la campagna. Poi basta. Un sottopasso, nessun edificio, nessun posto dove prendere un caffè, nemmeno le macchinette per comprare il biglietto, noi la chiameremmo "stazione non presidiata". In effetti, cosa c'è da presidiare sulla via per il niente? Mi siedo sulla panca, ben attento a non spaventare la signora che sta due metri più in là sul suo pezzo di sedile. Poi arriva una ragazza, si accomoda fra me e l'altra, mi faccio stretto nel silenzio di tomba squarciato solo dai treni a tutta velocità che non si fermano a Bronovice. Il tempo è inaspettatamente decente, nuvoloso con qualche raggio di sole, apro "La zona d'interesse" di Martin Amis, una delle letture che a mo' di compiti per casa mi sono imposto prima di partire (fioi, è un bel libro, provatelo!)

Si materializza il mio treno, 16.53, ne avrò fino alle 17.51 per Oświęcim. Cerco il controllore, un ragazzo giovane e alto, inglese deboluccio ma funzionale, compro il biglietto. Vedo binari, tanti binari che spesso si aprono a ventaglio come se ci fossero scali o aree d'interscambio, penso che a causa delle miniere che si trovano qui intorno c'era evidentemente una buona infrastruttura per fare arrivare sonderzug da tutta Europa. 

Vedo colline, boschi, fiumi e betulle. È strano, o forse no, ci sono delle cose che associ a delle altre cose dopo che hai letto o visto qualcosa: per esempio, i carillon mi fanno paura (un filin...) perché ho visto qualche pezzettino di film di Dario Argento o sentito qualche minuto di colonna sonora di horror movies. C'è sempre 'sto cancaro di carillon che avvisa che a breve il sangue schizzerà metaforicamente sul vetro della telecamera, no? Un po' allo stesso modo, le betulle mi ricordano le descrizioni dei dintorni di Auschwitz o i boschetti dove all'inizio della storia gli Einsatzgruppen (specie di squadre della morte aizzate da Himmler) ammazzavano con un colpo in testa tutti quelli non abbastanza ariani. Forse un milione e mezzo di persone sono finite fra i boschi in questo modo. E pensare che io le betulle ce le avevo nel giardino di casa, ma a quel tempo ero bambino e non mi trasmettevano cattive vibrazioni. Ci dovrò lavorare su: che ci possono fare le betulle che hanno la sola colpa di essere state là?


Stazione di Trzebinia, sono a 20 kilometri dalla destinazione. Non so perché, forse il nome somiglia superficialmente a Treblinka, e cerco sul web. La pagina di wikipedia di Trzebinia mi fa capire che essere intorno al buco nero di Auschwitz non è senza conseguenze. La seconda pagina che trovo è dello Yad Yashem.
On the eve of WWII, about 1,500 Jews lived in Trzebinia (Yiddish: Chebin), a community bubbling with Chassidic life and Torah learning, Zionism and a pioneering spirit, political parties and youth movements.

On 29 May 1942 (13 Sivan 5702), the deportation of the Jews of Trzebinia began. That day, SS and German police forces surrounded the ghetto, and a selection was carried out. The young and healthy were sent to work in factories in the nearby town of Chrzanów and forced labor camps within the Reich borders. A week later, those who remained were sent to Auschwitz, where they were murdered in the gas chambers on their arrival.
Provo a capire che cosa dev'essere stato quest'angolo di terra 8 decenni fa: abbiamo avuto i massacri anche dalle nostre parti, di uno parlo anche su questo blog, ma qui la scala sembra essersi imbizzarrita, anche in insignificanti paesi di campagna spersi lungo i binari. Sono quasi arrivato a Oświęcim e attraverso sulla ferrovia il fiume Vistola. Nuovamente, sull'acqua che fluisce placida mi immagino le tonnellate di ceneri umane disperse per non lasciare traccia. Betulle e fiumi non hanno voce ma si dovrebbero iscrivere a un sindacato che difenda i lori diritti! Che colpa hanno per aver piantato radici o scorrere in un simile terrificante pezzo di mondo?
After the war, only 270 Jews from Trzebinia remained alive. This is the story of the community of Trzebinia. [Fonte]
Sono le 17.51, puntuale, scendo a Oświęcim, il sole sta tramontando ma è una bella serata nonostante fosse prevista acqua a catinelle. Lo prendo per un buon auspicio per l'indomani, quando andrò a vedere la bestia nel non-luogo dove ha ringhiato con tutta la violenza possibile.

All'uscita dalla stazione di Oświęcim. C'è un po' sole, decido di camminare e annusare l'aria.



Saturday, September 14, 2024

Team and steam, l'arte e la scienza di far girare la squadra

Metto il limitatore a 75 km/h. Non che ce ne sia bisogno, la mia 500 non è una Abarth, ma vado soffuso e morbido, senza toccare il cambio o premere il pedale lungo i rettilinei di campagna che da S. Gaetano mi riportano a Riese, strade dritte figlie delle figlie della centuriazione romana che inducono alla riflessione. Mi godo la lieve vibrazione dell'abitacolo, l'immobilità, la tenue stanchezza e ripenso alla giornata di team building del Dipartimento, 8 ore coi colleghi e con i formatori. Quando è stata l'ultima volta che hai fatto una cosa per la prima volta?


Siamo ospiti di Infinite Area, nel cuore dell'area produttiva di Montebelluna, chi la conosce sa di cosa parlo, una selva di capannoni industrie calzaturifici laboratori teste e mani per fare e inondare il mondo di prodotti servizi idee ad alto valore aggiunto. È una delle tante piccole Silicon Valley del NordEst de noantri, io sono nato a una decina di kilomentri da qui e S Gaetano è uno dei paesi lungo la strade per il Montello, il paradiso dei ciclisti, quelli che sudano su dei catorci e anche quelli che hanno mezzi da 20000 euro (sudano, a volte, a anche quelli). Prato curatissimo, due hostess disciplinano l'ingresso, open space con tanto di carlinga di aereo riadattata per ispirare chi prova a sintonizzarsi su soft skills, leadership, organizzazione, capacità di gestire gruppi, casini, filiere, crisi internazionale senza farsi massacrare dalle strozzature logistiche, è il posto dove quadri, imprenditori e pure metalmezzadri di lusso si formano in mezzo a giornate di 18 ore di lavoro, "sapere è potere" anche se da noi resta valido il più semplice "testa bassa e baretta fraccata". Ci sono uffici, stanze per riunioni di dimensione varie, una wireless guest che uso dalle 11.00 alle 11.30 per parlare con Susi. 



Conosciamo i formatori di Otherwise (@otherwisetwitt), a me tocca quasi sempre Manuela, sulla quarantacinquina, castana a ricci lunghi e voce giusta, potente senza essere invasiva, e presenza fisica appropriata. sotto la sua guida finisco per fare molte cose con Sara, Silvia, Koray, Giacomo, Alex, Carla, Enrica, Kai, Sonia, Nicole, Davide, Martina (grazie ragazzi! E mi scuserete se ho dimenticato qualcuno fra vegani, judoka, poliglotti, ex tennisti e ex left-fielders... e chi più ne ha più ne metta).

Ci insegnano ad ascoltare, che è diverso da udire; capisco, in vari modi, che è faticoso, che la gente ti dice le cose ma serve cura, intuizione, umiltà per sentire che cosa hanno tentato di trasmettere, ci sono dei momenti in cui sono esausto. E ce ne sono altri in cui ammiro la forza, l'intensità, gli sguardi penetranti, e anche quelli smarriti, dei miei compagni di viaggio. Mi godo la presenza discreta di Manu, che suggerisce vie d'uscita senza mai darci la pappa pronta, tiene i tempi, "avete pensato che...?" e interviene quando i singoli o il gruppo sfarfallano.

Mi butto e non mi faccio mancare nulla, con un filo di attenzione per non strafare, siamo in tanti e un mosaico esce solo se tutte le tessere vanno a posto, non ci sono solo io. Provo a mimare il proverbio "curiosity kills the cat" (yes, mimare!) e ritengo di essere stato bravo almeno a fare il gatto morto stramazzato. ok, curiosity è un’altra storia e alla fine Nicole se ne esce con uno strepitoso "if you eat you can also work". È una bella metafora di come lavoriamo in ateneo, dove non siamo in 8 ma in centinaia: uno vorrebbe qc, prova a uccidere il gatto ma è troppo curioso (!?), gli altri capiscono "chi non lavora non fa l'amore", bella consecutio! Sorrido a denti stretti, sarà una metafora ma succede a settimane alterne nelle riunioni con colleghi, funzionari, prorettrici e rettrice. imparo che "c'è sempre un altro modo di vedere le cose", spero di ricordarmene la prossima volta, spero di essere lucido e di ripetere, a mo' di mantra, che ci deve essere un altro modo.

Ho due osservazioni "importanti": la prima è che abbiamo giocato 8 ore, è raro poterselo permettere fra adulti. Ma è quello che facevamo all'ACR (Azione Cattolica dei Ragazzi, miscredenti che non siete altro!), gioco, testa, riflessioni, gioco, pensieri, analisi che adesso chiamano debriefing... Sono certo che tutti i gruppi scout facevano lo stesso, t'insegnano, ci insegniamo come si sta insieme, come si porta rispetto, come ci si relaziona. adesso ci sono le soft skills, il design thinking, la mindfulness. bene. ma una parte di me dice "ridatemi l'ACR", non c'è nulla di nuovo (che forse, sotto il sole, non è un'enorme novità). Grazie Pia per avere osservato anni fa che le più prestigiose business school e i guri dell'aziendalismo hanno copiato il modello senza nemmeno citare i crediti. Mi sono divertito tanto, in un curioso stato in cui la fisicità di certe attività si combinava bene con la parte cognitiva, a formare un flow che aveva molto senso.

La seconda cosa è che si intravedono dettagli interessanti sulle persone che sono sempre e restano spesso bestie rare: alcuni erano simpaticamente cazzoni prima e restano tali anche dopo: sono quelli che s'imboscano, stanno sulla difensiva, si autosabotano e non partecipano con vago sentore di sussiego; altri sono delle rivelazioni, sprizzano forza mentale (e anche fisica), sono parte della soluzione e mai del problema; poi c'è una riga di sfumature intermedie, c'è chi ha paura di tutto (spesso, ma non sempre, è un collega del PTA) e chi ha bisogno di una solida base teorica per tagliare coi denti un pezzo di scotch (spesso, ma non sempre, è un collega docente). il mondo è bello perché è vario, le mie posterior sulle persone sono diverse dalle prior, in qualche caso ho aggiunto sfumature struggenti, in generale sto meglio con molti colleghi e in qualche caso si sono messi sull'impervia strada di essere inclusi fra i miei eroi. 


Nel pomeriggio, in sostanza, facciamo solo una macchina di Goldberg. Da wikipedia: un meccanismo progettato in maniera deliberatamente complessa per eseguire operazioni semplici o trascurabili.

Potrei discutere il "deliberatamente" e l'apparente assurdità di fare cose trascurabili e per giunta perdendo tempo. La macchina è un gioco e, credo, non si direbbe mai che la scopa è un modo deliberatamente complesso di disporre 40 carte su un tavolo (cosa alquanto trascurabile). Il gioco è una cosa seria! Nel nostro contesto, la macchina è un potente mezzo per creare un team in grado di fare cose che all'inizio sembrano solo divertenti, poi virano sull'impossibile, infine te le rendono ancora più difficili, un viaggio nell'onirico che sfida la gravità per fare cadere da un trespolo una palla con cannucce, legnetti, spago, palline, pezzi di domino, carabattole e cianfrusaglie varie. Nella prima fase, quella ludica, noi lavoriamo mezz'ora per mettere in opera una carrucola (specie io, Giacomo e Marianna), ci pareva una figata estetica; poi abbandoniamo per le troppe difficoltà (attriti, il filo si impiglia, il sostegno traballa nonostante generose scocciate di nastro da pacchi...) 


Eppure, più tardi, si sprigiona una magia quando ci dicono l'obbiettivo vero e ci rendiamo conto che se le palline vanno giù per gravità, per fare cadere la palla grande dal tavolo, o con le buone o con le cattive, dobbiamo elevarci. E la sporca maledetta mezz'ora (o era un'ora?) di maldestri tentativi a vuoto a questo punto resuscita perché quel tempo perso ha posto le basi per carrucolare un cestino in cui entra una biglia pesante, in modo che si tira un filo che fa cadere un sostegno che tiene in bilico la tovaglia che scivola a terra e fa cadere la palla (ce la potete fare, rileggete tutto d'un fiato!) Facciamo pure una prova generate e l'accrocchio sembra funzionare. Rimettiamo a posto tutto, ci sono sempre margini di rischio, manco fosse la partenza dello shuttle da Cape Canaveral, dato che tutto sta in piedi per misericordia e bisogna respirare lenti per evitare che lo spostamento d'aria inneschi il meccanismo.

Il primo gruppo ce la fa: bel numero e la palla grande cade; il secondo gruppo ha costruito una cosa di grande effetto coreografico, in cui tre palline convergono nel tentativo di ribaltare un cilindro di legno che poi dovrebbe fare il suo lavoro. ma le cose non girano come previsto e c'è un momento di delusione e smarrimento... fino a quando Federica molla un calcione al cilindro! L'episodio è di gran finezza e mi ricorda la meravigliosa scena del matrimonio di Vassilissa in "Mediteraneo" di Salvatores: il brindisi celebrativo deve finire col bicchiere rotto dopo che gli sposi hanno sorbito il liquore labbra su labbra, ma qualcosa va storto e il bicchiere rimbalza per terra e non si rompe. L'intervento del capitano Lorusso-Abatantuono distrugge il cattivo presagio, calpestando e mandando in frantumi il bicchierino. Ecco, penso che dove non arriva la macchina è molto benvenuto un calcio ben assestato di Federica Lorusso in Abatantuono. Sono pure tentato di pensare che qualche volta un calcio ai maroni di qualche collega farebbe miracoli... ma mi trattengo! Alla fine ci siamo noi, terzo gruppo, non manca la suspense ma vien giù tutto, carrucola, sostegno, tovaglia e soprattutto palla! Alzo il pugno come Sinner agli Open degli USA, a ognuno le sue soddisfazioni, no?

È stato bello! Decine di colleghi a mettere in fila biglie e traiettorie di pensieri, a conoscersi, a ribadire che per ascoltare bisogna esserci sul serio, senza cadere preda di quella frenesia di minuzie in multi-tasking che ci rendono sordi, ciechi e alieni. E a dir il vero mi sono gustato la disconnessione da internet, email e boiate varie, ero in silenzio-internet e direbbero i REM it's (not) the end of the world as we know it and I feel fine! https://www.youtube.com/watch?v=Z0GFRcFm-aY


ps1. Disconnesione internet completa? No... Tre tweet celebrativi-istituzionali non sono riuscito ad evitarli... Una bella cosa di cui non ho parlato nel post è at https://x.com/paolopellizzari/status/1834553469081911427

ps2. Grazie Sonia e grazie Marco, corre voce che quanto ci avete dato dentro voi per organizzare l’evento non lo sa nessuno!