Friday, October 05, 2018

In memoria dell'ASN

parto da Treviso giovedì alle 15.06, caffè col fiocco da Goppion in piazza Borsa, mi pare strano ma fra qualche ora sarò a Roma per l'ultima volta di questa sequenza lunga cinque quadrimestri, un bel pezzo di vita. oltre un anno e mezzo di valutazioni, discussioni, contraddizioni. francamente non auguro a nessuno di fare parte della commissione pur nella convinzione molto brutalista e funzionale di aver fatto bene. e non mi riferisco tanto ai risultati, a chi è stato abilitato e a chi no, chissà cappelle che abbiamo collezionato, il giudizio sta ad altri...  penso invece al servizio fatto in qualche modo al paese e alla mia comunità scientifica: rotoli di carte, schermi di computer per giorni, tabelle excel, elenchi di riviste, titoli seri, titoli faceti e titoli lunari, pubblicazioni e maledizioni in quantità. in fondo era un lavoro che andava fatto e l'ho fatto, assieme agli altri magnifici quattro. non so bene perché ma mi sento anche come Mr. Wolf, un professionista che risolve problemi. sono arrivato sul palcoscenico di questo teatro valutativo in modo inconsueto e triste (un ricordo per Marida) e ho sperimentato un lavoro al limite (per me), intriso dei carichi emotivi che dipendono dagli effetti delle decisioni che prendi e intarsiato di bizzarrie legal-burocratiche, autorizzazioni, ricorsi, richieste diametrali di essere allo stesso tempo sintetico e analitico, informativo e sfuggente, preciso ma non poliziesco (per usare una definizione della funzionaria ministeriale che ci ha seguito, grazie Eva!).

è stata una bella lezione di vita e di umiltà, paradossale e tutt'altro che gradevole in vari passaggi anche per la (mia) difficoltà a interagire con le idee degli altri membri della commissione. strano che ti stia temporaneamente sulle balle chi la pensa diversamente, o no? essere in 5 ha delle conseguenze, qualche decisione non mi è piaciuta e, d'altro canto, adesso so in modo nuovo e profondamente inciso sulla mia pelle che le deliberazioni a maggioranza sono uno strumento, duro finché si vuole ma sensato, per andare avanti in situazioni difficili. in vari casi hanno fatto capolino motivazioni che non c'entrano una mazza ma si tratta di sana fisiologia decisionale e alla fine anche io ci avrò messo del mio, risultando "marginale", in senso economico, e spostando decisioni dalla mia parte di tanto in tanto. forse un solo caso più di altri mi intorciglia le budella
Ma, indomito, nego e non nomino alcuno.
Riguardando ex post il lavoro e provando a mettermi alla giusta distanza posso solo rammaricarmi del fatto che alla fine una certa qual aura d'amnistia si è impadronita di (alcuni di) noi. pazienza, forse in dubio pro reo, anche se qualcuno dei rei non supererebbe le soglie appena approvate fresche fresche dall'ANVUR ed è strano vedere che uno s'abilita proprio il minuto (quadrimestrale) prima di non essere nemmeno ammesso alla valutazione.

l'ASN è stata anche un'occasione per andare a Roma, groviglio di bellezza e coacervo di relazioni pericolose che stupiscono noi polentoni in trasferta. La Sapienza ci ha ospitato in tutte le riunioni in presenza nei suoi palazzi marziali, romani e lievemente fascisti, un po' sgualciti e in cui sempre aleggia la vicinanza presunta o reale, diretta o per arzigogoli, con il potere, i ministeri, i funzionari-ari, ari-ari ari-ooh (come i Blues Brothers). ci siamo riuniti a ripetizione nel dipartimento di Corrado Gini, quello dell'Indice (più famoso ma meno divertente di quello di Martino). forse ci siamo seduti nella stessa stanza dove questo trevisano di Motta di Livenza "amato da Obama", amico di Mussolini e dell'eugenetica, ha lavorato lasciando tracce imperiture nella statistica moderna.


Corrado Gini non era gran simpatico (ma un grande statistico sì: fondatore e direttore di Metron  e dell'ISTAT fino alla sua morte, la prima bellissima copertina campeggia nel corridoio). Nel 1926 disse che bisognava favorire la nascita di bambini bianchi sani legittimi e molto cristiani. Non a caso fu popolare durante il ventennio ma rimase in sella anche dopo la fine della guerra.
Dal punto di vista "geografico" mi restano bei ricordi: grande e stupenda questa Roma che da 2000 anni se ne batte e in qualche modo se la cava sempre, indipendentemente dal governo di turno, resiliente e tetragona ai colpi di ventura, cosa vuoi che sia un governo penta-leghista o un altro, dopo che hai provato senza sprofondare d'un millimetro sindaci come Marino, Alemanno e la Raggi (tanto per ecumenismo, fare il sindaco di Roma dev'essere una prova tremenda e superiore alle capacità umane, lo sapevano anche Cesare, Diocleziano, i Papi, i Savoia e via dicendo).  A margine di adunanze interminabili sono stato pure a vedere Santa Bibiana e abbiamo mangiato bene: grazie al bar "Il giglio" per spettacolari cornetti mattutini e per la gentilezza della clientela che saluta sempre l'extracomunitario di turno e dona una monetina; "Abitudini e follie" e "Braci e abbracci", tutti nel raggio di 500 metri dalla Sapienza, ci hanno ristorato nei momenti di difficoltà calorica e psicologica (quando non siamo stati costretti ai panini e lattine del bar interno, s'intende). ricordo anche il furgone di bengalesi che vendono ogni tipo di quaderni e cancelleria, parcheggiato puntualmente di fianco all'uscita del Globus Hotel al semaforo di viale Ippocrate, sono stati i miei inesauribili fornitori di tratto-pen (e ne ho consumati parecchi, alla fine abbiamo esaminato 283 candidati, tombola!)

Botta di colore e varietà di lapis, evidenziatori e pennarelli. Spiccata professionalità in zona universitaria, sempre parcheggiati al semaforo di Viale Ippocrate.
Per la prima e ultima volta, in occasione di questa riunione di chiusura, ho viaggiato su Italo, il servizio è confortevole, forse più di Trenitalia, accumuliamo solo 35 minuti di ritardo in due viaggi, la registrazione per il collegamento internet è facile e avrò sempre gran quantità di banda (quella larga, non quella che suona il rock!). all'andata trovo a bordo la collega Mariella che torna a casa nell'Urbe dopo il canonico lun-mar-mer di lezione in laguna.  sulla via del ritorno, chiudo l'ultimo giudizio alle 19.05, quando siamo non lontani da Firenze. è finita.  forse.  anzi no!  dovrò mandare le pezze di spesa al responsabile del procedimento al dott. Elmo, che non ci ha mai visto a UniCalabria; manca il controllo degli uffici ministeriali; forse arriveranno gli strascichi di cui vengo a sapere di tanto in tanto e i ricorsi (buona fortuna, finora ne abbiamo collezionato solo 2 e non sappiamo nemmeno come sono finiti). ma in fondo sono bagatelle e possono finalmente partire i titoli di coda. avanti i prossimi.

[ps. a margine, adesso posso mettere in opera il nuovo portatile che attende imballato da tempo: sarò pusillo ma non avevo trovato il coraggio di cambiare macchina, files, settaggi, versioni del software prima di finire l'ASN. ho anche chiuso, dopo 20 mesi di ininterrotta apertura, una finestra del browser che tenevo in secondo piano con due tab su asn16.cineca, un tab su Scopus e uno su Scholar, tab sul sito ministeriale dottorati, diversi tab per ricerche varie su progetti di ricerca, convegni, comitati editoriali... ognuno ha le sue scaramanzie e io le cose non le chiudo fino a quando non le finisco e infatti la mia scrivania è una moltitudine!] 

Tuesday, September 11, 2018

Der kommissar

Sul treno delle 14.22 il portale wifi gratuito della Deutsche Bahn mi accoglie con un "Willkommen im ICE Portal des ICE 940 nach Düsseldorf Hbf" anche se accumuliamo inesorabilmente ritardo e ormai stimano la partenza alle 14.44.  Dove sono i treni tedeschi di una volta?


Auf-wiedershen Bielefeld, è la mia seconda volta in questa città che pare definita da un proverbio tedesco come il posto che non esiste.  Invece, per esistere esiste eccome!  Bella università, fondata nel 1969, meriterebbe di sicuro l'inserimento nella best 50 under 50 (ancora per poco), ho visto per la prima volta in vita i locali dell'Inst.  f. Math.Wirtschaftsforsung (IMW), l'istituto di matematica per l'economia che non è lontano dall'essere un mito per un matematico meticciato d'economia e applicazioni come me.  Ma, ancora di più, è la città dell'ITN che ha già riempito un post del blog, il posto dove lavorano colleghi rocciosi, bravi e ben organizzati come Herbert e Ulrike che ci hanno trascinato in un proggettone europeo denominato ExSIDE in cui si studiano le aspettative, al grido di "Così il futuro cambia il nostro presente", come ha scritto Enrico.


I due giorni di un temuto midterm review in presenza dell'officer comunitario e di un external expert sono finiti.  Dora lavora all'agenzia per la ricerca europea, braccio esecutivo della commissione: si nota la sua giovinezza, è formale senza essere sussiegosa, diretta senza ombra di sfacciataggine, tranquilla e costruttiva col suo inglese pratico lievemente screziato di Ungheria.  Poi c'è Marina, una volta era bielorussa, parla pure italiano, direttrice di qualche centro in qualche università di Wiesbaden, fattezze morbide che mi ricordano quella della mia direttrice. In teoria è l'esperta ma, pur essendo un'accademica, fa altre cose (institutional economics) e capisce il capibile, bel modo di porsi, mai sopra le righe, non dice nessuna sciocchezza e varie cose sono semplici ma utili. Alla fine l'audit è un (piccolo) trionfo e le commissarie ci dicono che è well managed, che va bene, continuate così.  È fatta anche questa e, come compito per casa, suggeriscono di dire agli studenti di pensare a come applicare le cose che studiano.


The "italian delegation" di noi veneziani è composta da me, Barbara, Rina e Luisa che tengono alta la bandiera dei partner non accademici. Abbiamo visto coi nostri occhi un audit, forse siamo persone migliori, nel senso limitato che abbiamo fatto esperienza di un passaggio che altre volte potrebbe essere (molto) più difficile. Adesso so che la Comunità Europea, cui recentemente politici pavidi e rancorosi attribuiscono ogni male, può essere di grande aiuto senza nessuna complicazione, consentendo di fare ricerche impensabili, sempre dalla parte della soluzione e mai dalla parte del problema. Grazie EU, sembra quasi strano dirlo ma è vero!

È una bella giornata di sole in questa Westfalia delle meraviglie che però non scambierei quasi mai con l'Italia che pure, in questi giorni tirati, mi pare confusa, fin troppo pentaleghista e sempre sull'orlo di un burrone.  Finiamo, per così dire, al tavolo del Cafè Bar Casa: tre nürnberger würstel (con aggiunta di due uova all'occhio) per le compagne di viaggio e uno shawarma sandwich che sa di medio-oriente e che non avevo mai sentito nominare.  Mi ero gustato poco prima all'università un cay turco fatto bene (ma loro ci tengono a specificare che sono kurdish turkish, ci mancherebbe).  Qualche oriente lo si trova sempre per quanto uno scappi a occidente e va molto bene così.  Non riesco a non guardare analiticamente, tentando di non dare troppo nell'occhio, la capa del bar che armeggia per farci conti e ricevute separate: poco più che ventenne, ambrata a dir poco, capelli lunghi neri come la pece, Layla di nome (non proprio d'ordinanza fra le tribù teutoniche), pantalone di pelle, tacco alto e maglia a maniche lunghe bianco-nera aderente e accollata, curve giuste che hanno il loro perché (come provo a dire eufemisticamente).  Mostra al cameriere autoctono come si fanno le ricevute e lui si guadagna pure la mancia perché la scena mi mette di ottimo umore.  Mi pare un segno augurale vedere una giovane capo donna, mora, di seconda generazione, dal look tutt'altro che fondamentalista e col physique du role, dare ordini a un tedesco di Germania per risolvere un problema.  Ce la "imprestate" che la facciamo almeno sottosegretario?

Friday, August 17, 2018

Le mie ore giapponesi

Riemergo or ora, felice, dalla lunga marcia che è stata la lettura di "Ore giapponesi" di Fosco Maraini.  Non sempre sento l'urgenza di raccontare quello che trovo dentro un libro, vuoi perché qualcosa lo tengo per me, vuoi perché a volte c'è poco da salvare o degno di nota.  Ma stavolta è diverso e la lettura del libro, dipanatasi per 20 mesi a partire dal gennaio 2017, ha illuminato diversi argomenti divertenti e stimolanti sul Giappone e sui giapponesi che, per vari versi, erano avvolti agli occhi di un occidentale in un esotico splendore (o ignoranza stupefatta che dir si voglia).  È stata una lettura sfiziosa anche per i collegamenti, spesso carsici, con gli uomini che l'hanno resa possibile, a partire dall'autore che è un soggetto pirotecnico per interessi e biografia, fino a Carlo Scarpa che ha acceso la miccia.
La mini-guida della mostra è scaricabile qui
Nel gennaio del 2017 mi trovo a Roma e vado a vedere la mostra al MAXXI "Carlo Scarpa e il Giappone", a cura della brava Elena Tinacci.  La mostra è letteralmente uno spettacolo, racconta di come Scarpa sia rimasto folgorato da questo paese così nitido ed elegante in alcune sue manifestazioni culturali ed architettoniche, tanto che scrive alla mogli Nini:
  Cara,
  qui è tutto bello
  o meglio,
  è più di quel che conosciamo.
  I giardini sono addirittura favolosi.
  Bisognerà ritornare insieme
  l'anno prossimo
  per Osaka.
  Ti piacerà vivere anche
  alla giapponese...
Capita anche a me di dire con frequenza che "è molto bello", nei tentativi di raccontare i viaggi e le esperienze nelle lettere a Cesira.  Dirlo, credo, segnala che un oggetto, un luogo, una visione o una situazione ti rimbombano nell'anima, o almeno stazionano vibrando in quell'intarsio di cuore e di mente che lo recepiscono.

Ma cosa c'entra Maraini in tutto questo?  Nell'archivio di Carlo Scarpa si trova traccia dei libri che il sessantatreenne architetto lesse per preparasi al viaggio del 1969 e si citano "Taccuino Giapponese" di Mario Gromo e, appunto, "Ore Giapponesi".  Il primo libro è quasi introvabile, volendo avrei potuto chiederlo in prestito a una biblioteca torinese ma ci rinunciai perché ho trovato subito Maraini e l'ho scaricato sul Tolino.  Sono proprio le note che via via prendo sul lettore che mi consentono di ritornare anche a distanza di un anno e mezzo su alcuni brani e che certificano che ho impiegato una vita a leggere il tomo (pur inframmezzando con altre cose, specialmente di Primo Levi, come "Il sistema periodico" e la "Chiave a stella").

Se pensate che 20 mesi sono lunghi avete ragione ma è stato un periodo intenso e, di questi tempi, leggere è stato un lusso raro (e d'altra parte, spesso ho l'impressione che convenga sparare cazzate, tweet o slogan in questi tempi tempi vandali, altro che leggere).  A mia parziale scusante, poi, c'è da dire che "Ore Giapponese" è (anche) una sbobba di oltre 800 pagine, un guerra-e-pace che necessita adrelina alta e sostenuta per settimane: montagne di idee, storia, etnografie, trascrizione di parole in giapponese, descrizioni di endocosmi (parola che ricorre tantissimo), filosofia, riflessioni personali e tranches de vie che hanno dell'incredibile.  In altri casi avrei gettato la spugna, centinaia di pagine logorano (potenzialmente) e non mi mancano di sicuro decine di libri nella lista delle cose che voglio leggere prima o poi (vita natural durante, spero)  Ma Maraini-san mi ha stregato: colto, toscanaccio e padre della scrittrice Dacia, sposato alla dolce Topazia, riusciva invariabilmente a scrivere delle perle di tanto in tanto, napalm sulla mia voglia di continuare la lettura pur in presenza di pagine talvolta meno incendiarie.
Il titolo del libro in giapponese, (credo!)
C'era anche la voglia di completare un (piccolo-grande) esperimento mentale, provando a rileggere a distanza di quasi 50 anni le stesse cose che aveva letto Scarpa prima di andare in Giappone, mi è parsa una rara occasione per collegarmi a un'altra personalità che ultimamente mi ritrovo a "studiare" in vari modi e a modo mio.  Quando ricapita di poter rileggere e ricostruire le storie e le visioni che poi, in qualche modo, rivedo incarnate in opere architettoniche come Tomba Brion o evocate in altri lavori che precedono il viaggio del 1969?

Il libro è (forse) un diario di viaggio in cui la famiglia Maraini percorre a metà degli anni cinquanta il Giappone, tracciando un itinerario classico e forse inevitabile per un visitatore.  Credo che se mai andrò in Giappone, cosa che adesso voglio fare più di prima, sarà a mia volta impossibile discostarmi da molti dei luoghi citati: Tokyo, Kyoto, Nara, il Monte Fuji, il Tokaido...  Un buon motivo è certamente quello di spingere l'esperimento mentale al livello tre: Maraini scrive, Scarpa legge, io rileggo e poi magari torno sul luogo del triplice delitto (chiedo venia per l'ardire di accostarmi a Carlo e Fosco, è solo un post sperduto in mezzo ai campi della blogosfera!)  Con la scusa del viaggio con la sua famiglia, Maraini ripercorre anche la storia del paese, della sua cultura e filosofia e chi più ne ha più ne metta.

Non sapevo una mazza di Giappone, poco più che tatami, futon, geisha, karakiri, kabutocho (che per me era l'indice della borsa e invece è un quartiere), avevo visto il durissimo film di Scorsese "Silence" con Liam Neeson nei panni di un gesuita che non se la passa per niente bene e finisce per abiurare, una volta avevo avuto uno studente che proveniva da Waseda University, la barzeletta del becchino che si chiama ki-ruma kata-ossi ...  Sono brandelli di comprensione a caso, briciole di una torta che non avevo mai visto né assaggiato.  Il libro di Maraini ha rimesso a posto le poche tessere di cui disponevo e ha riempito molti spazi bianchi.

In ordine sparso e senza che il povero Maraini sia responsabile dei beccanotti che certamente scriverò, adesso ho qualche idea sullo shinto, la religione/filosofia vitalista e intrisa di profonda reverenza nei confronti della natura che spiega "l'atteggiamento vigorosamente positivo ed affermativo nei riguardi della vita"; ho trovato illuminanti le descrizioni di buddismo e Zen, tanto diverse dalla tipica forma mentis cartesiana degli europei per il tentativo di unire in un olismo cosimico uomo e natura o, nel caso dello Zen, per rifuggire anche dalla razionalità, favorendo l'intuizione che deriva da anni di pratica (di tiro con l'arco?)  e che porta a un flash che forse si chiama illuminazione ed è descritto cripticamente in tanti haiku; un tantinello ho capito chi sono i Tokugawa, dinastia di perdenti che hanno chiuso sé stessi e il loro pese in un isolamento estremo e autoreferenziale, distruggendo ogni contatto con l'esterno per due secoli e mezzo (mutatis mutandis, anche alcuni politici e fanno lo stesso, sono bravi solo loro e gli "stranieri" portatori di diversità sono untori); fare la geisha richiede anni di lavoro (non nel senso di quello più vecchio del mondo!), per imparare a danzare, cantare, discorrere amabilmente e ingentilire il mondo (ok, il testosterone di noi maschi proverbialmente attribuisce a queste signore, in via d'estinzione nel Giappone moderno, immaginifiche capacità erotiche); ci sono pagine bellissime in cui Fuosko-san (i giapponesi evidentemente non sanno dire Fosco) parla dell'eleganza innata di questo popolo, del loro less is more che ha lasciato il segno su Wright e Scarpa, della cura dei giardini, in cui tutto -cielo, terra ed acqua- sembra naturale ed è frutto di sforzi immani, dei loro simbolismo potente e privo di fronzoli; allo stesso tempo, capisco di più anche il delirante culto della gerarchia, dell'ordine e dell'obbedienza che ha prodotto esempi estremi di esaltazione fanatica, seppuku (auto-sbudellamento con katana) rituali e simili; ci sono parole incise nella mia memoria (ehm, le ho appena riguardate nelle note del Tolino, è l'età!)  come samsara, il vortice delle illusioni; satori, l'illuminazione; zen, la santa follia, "donde viene, dove va, cosa significa?"; kami, "un punto, una cosa, una persona in cui si manifesta in maniera augusta una carica più intensa di quel segreto divino ch'è nascosto per ogni dove intorno a noi", li avete incontrati anche voi, vero? zen, di nuovo, esperienza che "chi non l'ha vissuta non sa di che si tratti, chi l'ha provata non sa come dirlo", messi ben, no?  il ben noto kamikaze, letteralmente "il vento degli dei", con tanto di episodio di folle linearità nipponica: nella primavera del '45 gli americani bombardano Nagoya, spezzoni incendiari scientificamente distribuiti, brucia tutto, le case sono fatte di legno e shogi di carta, almeno 10000 morti, il Giappone da mesi è alla deriva ma non si pensa nemmeno alla resa nonostante non esista nemmeno più difesa.  Una notte un piccolo aereo si alza in volo e punta dritto, sempre più su, verso un B52, sempre più in alto fino a quando il moscerino si schianta sul bestione di ferro e lo fa precipitare.  Dalla città (ricordo che è quel che resta, una distesa di tizzoni ardenti) si alza un enorme urlo, migliaia di abitanti gridano all'unisono un "Banzai!" che si sente a kilometri di distanza.
Mi avvio alla conclusione con due ultime riflessioni su questo libro caleidoscopico ed ebbro allo stesso tempo di lucidità e passione.  Maraini descrive un campionario di amici che incantano: da Giorgio, l'esteta intellettuale, sempre avanti di due passi, il cui figlio Enrico vive nella faglia esistenziale collocata fra Europa e Sol Levante, che ha un flirt con Jane l'americana dopo aver lasciato la sciccosissima Tamako (certamente una gran sventola mentale e fisica ma veramente veramente troppo complicata...) a Somi, al secolo Adriano Somigli, fiorentino con quella profondità finanche dolorosa di pensiero, anima e umanità, che appartiene alla sua terra nelle espressioni migliori.  La descrizione che ne dà Fosco è una perla:
Credo che il nocciolo finale nella valutazione d'un uomo sia la bontà di cui egli è capace: l'intelligenza, la bravura, la sicura volontà ci riempiono di meraviglia, ma che cosa lasciano col passar degli anni?  Somi è carico di difetti eppure non si può fare a meno di amarlo, perché sotto tutti i suoi atteggiamenti dannunziani e satanici, con tutti i suoi paradossi, è buono.
Ma la parte più straniante e sorprendente del testo arriva verso la fine, quando nei ricami del viaggio la famiglia Maraini ritorna al Tempaku, il palazzo prigione in cui furono rinchiusi alcuni italiani dopo l'8 settembre del 1943, quando di colpo diventammo nemici dei giapponesi.  Da amici a traditori nel giro di un giorno di settembre, per colpa di cose avvenute fra Roma e Napoli, ve l'immaginate come l'hanno presa i giapponesi nel bel mezzo della guerra?  No, forse non lo immaginate, perché le pagine del libro che descrivono la prigionia sono state per me così dolorose che ho raggiunto i miei limiti e ho dovuto sospendere la lettura per riprendermi (anche se quando sono carburato mi reputo lettore caterpillare e incapace di pause).  Topazia, il cui diario semplice e diretto è virgolettato più volte nel testo, dice ad esempio che:
15 febbraio, il tempo passa, la nostra situazione non muta...  sto male, sempre più debole.  Sono stata alzata quattro giorni, ma una sera di nuovo oppressione, mancanza di respiro e quasi svenuta.  Da allora a letto, e se mi alzo per più di dieci minuti sto male.  E debolezza.  Fame, fame, vuoto, languore; non riesco a pensare ad altro...  19 febbraio, ha nevicato (zero o al massimo 4 in camera la sera), freddo.
E poi:
Ci si dovrebbe consolare pensando alle altre migliaia (o milioni) di persone al mondo che stanno come noi o peggio di noi...  ma non  si riesce a pensare a niente di consolante quando si soffrono crampi di fame e fa male la testa e si vanno a cercare i rifiuti nella cassetta delle immondizie
Fosco, Topazia, le bambine e gli altri italiani, fra cui Somi e Giorgio, devono vivere per mesi con 130 grammi di riso a testa e poco più, "limite precario fra sussistenza e disintegrazione", e soggetti a restrizioni di ferocia inaudita e, a suo modo, tristemente tipica in Giappone.  Le pagine mi ricordano nitidamente quelle di Primo Levi a proposito della sua prigionia ma, per qualche motivo e per quanto possibile, ciò che è descritto in "Ore Giapponesi" è ancora più inumano e crudele.

Constato che, forse, tutte le guerre sono in qualche tratto identiche, consentendo a "uomini" di infierire sui loro simili abdicando per presunte cause di forza maggiore alla loro essenza e ruzzolando verso vergogna e barbarie senza limiti.  Alla fine, come per Levi, la salvezza viene da rischiosi furti di cibo, detti "recuperi", e traffici vari: o muori di stenti o rinunci alla legalità che sarà pure figlia della civiltà ma à la guerre comme à la guerre, è il minimo che si possa fare.  Il punto di svolta è il famoso radio-discorso dell'imperatore che annuncia la resa e comunica di non essere un dio (un kami, a dir il vero), lasciando storditi i suoi sudditi che avrebbero probabilmente difeso il loro Tenno anche coi moncherini una volta spezzettati: i Maraini vengono liberati, sono vivi, dimagriti e ridotti male, ma vivi. Inizia per il Giappone un rivolgimento mai visto e quest mezzo secolo lascerà tracce indelebili, dentro e fuori, sul paese.

Quel bischeraccio di Fosco, nonostante tutto questo (e altro che non vi dico, non solo loro sono capaci di gesti impressionanti e sanguinolenti) non ha mai perduto un amore per il Giappone che non pare avere limiti:
Com'è strano!  Ritornando cogli occhi ai luoghi, e con la memoria ai tempi, in cui si è duramente sofferto, invece di provare un senso di fastidio t'invade una profonda commozione, e fra le più dolci, che riesco soltanto a qualificare come religiosa.  Un senso cioè che lì, allora, si è partecipato significativamente al grande mistero; che lì, allora, bene e male, tempo e non tempo, vita e morte, amore ed odio, i grandi arcani segreti, le grandi arcane potenze che regolano il corso delle cose visibili ed invisibili, mordevano, agivano su di noi con voltaggio scarnito e maschio, tale da lacerare quell'opaco velo di convenzioni, di fiacche abitudini, che li oscurano nei tempi ordinari.
Ecco, ci ho provato e sono in vena di autoassoluzione a priori, un libro così multiforme non si presta a post e argomenti rettilinei. E, d'altra parte, l'autore stesso si chiede nell'incipit
Mi perdoneranno il lettore, o la gentile lettrice, se qui presento loro un'opera definibile ormai come una sfoglia, una pasta millefoglie, un'autentica lasagna di libro?
["Ore Giapponesi" è stato scritto nel 1956, soffermandosi su fatti e circostanze del 1938-1946; l'edizione che ho letto è del 2000, Corbaccio, e contiene delle glosse di Maraini che aggiorna alcuni capitoli menzionando i cambiamenti occorsi fra la meta degli anni '50 e l'inizio del XXI secolo. Ringrazio anche Luisa Bienati che in tempi non sospetti mi ha fatto conoscere il funambolico bestiario foschiano della "Gnòsi delle fanfòle" da cui non mi sono più ripreso.  Che la lettura vi sia lieve!]



Saturday, May 26, 2018

Il maliano che è in me

Se smettessi di essere Paolo e vi rivelassi che sono un maliano di 25 anni, licenza media, che parla il Bambara? In effetti finora mi sono camuffato bene e molti credono che sia un professore e che abiti a Treviso. Mi ha aiutato la passione per la matematica e sono partito dai numeri per imparare questa strana lingua, l'italiano, lasciando perdere il mio idioma mandingo maliano: uno due tre, ..., dieci al posto di kelen, fila, saba, naani, duuru, wooro, wolofila, seegin, konoton, tan.  Non è semplice stare in Italia, ma è molto meglio che ammuffire dov'ero.  Ho un permesso di soggiorno temporaneo in attesa che la mia pratica venga esaminata dalla commissione territoriale.
Ho il mio appuntamento in lavanderia, potrò usarla per 5 mesi. Al dormitorio però al massimo si resta per 2 mesi.
Il problema è che sono stato espulso dal CAS, un Centro di Accoglienza Straordinario, perché sono entrato due volte in ritardo.  Mi sono sembrati un poco rigidi e mi sono cercato un altro posto ma non è facile.  Da due giorni, comunque, dormo nei parcheggi vicino alla questura: non si sta male ma faccio fatica, ci svegliamo in continuazione e da troppi giorni non mi lavo e non mi cambio.

Vado alla Caritas a caccia di un pasto caldo, corre voce nel parcheggio che non ci siano molte alternative.  Le due ragazze sono energiche e gentile, una parla anche qualche parola di francese (il bambara qui non lo sa nessuno). Mi domandano la tessera ma io non ho nulla.  Mi fanno capire con ferma gentilezza che l'indomani devo andare al Centro di Ascolto e farmi rilasciare la tessera, senza di quella non mi daranno nulla e non c'è verso di aiutarmi.  Unica eccezione che fanno è quella di darmi da mangiare, "ma è l'ultima volta senza tessera!" e finalmente metto sotto i denti un minestrone caldo, pane e una porzione d'arrosto. Poi vedo che tutti danno una mano a riordinare la mensa, faccio qualcosa anche io e aiuto le signore e le due ragazze che ci hanno accolto all'entrata.  Me ne torno nel parcheggio, notte n.  3, ben determinato a farmi questa benedetta tessera il giorno dopo.


La mattina vado al centro d'ascolto, c'è già la fila e una volontaria compila il modulo coi miei dati e mi dice di aspettare il colloquio.  Quasi un'ora dopo entro e Nicola mi registra, mi chiede da dove vengo, dove dormo, che documenti ho, se ho studiato...  mi dice che a volte i CAS rilasciano anche una carta d'identità ma a me non l'hanno data.  Parliamo per circa mezz'ora e poi le ragazze dell'ufficio mi fanno la foto e mi preparano la tessera: da ora in poi, per cinque mesi, posso utilizzare i servizi della Casa della Carità.  Tiziana mi porta a vedere la lavanderia, mi mostrano le lavatrici per indumenti, le posso usare lunedi, mercoledi e venerdi, prenotando l'ora.  C'è una signora di una certa età che mi mostra i cesti dove riporre la roba da lavare e mi dà la dose di detersivo, mi dice di prestare cura e di non rovinare i vestiti che mi daranno, se ne trovano.  Poi Shaila, una ragazza che sembra bengalese e che indossa un bel camice bianco, mi ricorda che se non arrivo puntuale il prossimo mercoledi, salto il turno, non possono lasciare le macchine ferme se uno arriva tardi.
Io avevo capito 3 giorni... ma poco importa!
Tiziana mi riprende e mi mostra le docce maschili: posso usare il servizio tre volte a settimana, da quando tiro il filo ho sette minuti di acqua calda, mi daranno anche il sapone e un asciugamano.  I locali sono semplici, puliti, non saprei come dirlo in bambara ma in italiano credo che si dica "spartano", anche se quando ho detto la parola la prima volta tutti hanno riso...  gli operatori sono tranquilli, solidi, capisco che senza questa linearità sarebbe difficile offrire la possibilità a quelli del parcheggio di lavarsi qualche volta alla settimana.

Continuo il giro, passiamo di fronte alle docce femminili, mi porta a vedere il dormitorio.  Antonio e Giuseppe, sui cinquanta uno e sui sessanta l'altro, mi spiegano che forse si libera un letto fra 4 giorni, poi potrò restare per due mesi.  "E finiti quelli?", "Mi spiace, dovrai trovarti un altro posto", mi pare che gli dispiaccia veramente ma fra due mesi spero di aver documenti nuovi, magari un lavoro, vedremo...  Gli dico che tornerò fra 4 giorni, venerdi devo anche venire alle 16.30 per usare la lavatrice e poi spero di avere la camera che mi hanno mostrato: semplice, pulita, un letto appoggiato al muro e un sacchetto con quel che serve, anche un rasoio.

[Il 12 maggio sono stato a "Venite e vedrete", l'evento in cui la Caritas Tarvisina presenta il bilancio sociale e mostra quello che fa. Sentirsi maliano per due ore è un'esperienza in cui sei grato che persone solide e buone ti lancino un'ancora. Sono fiero di loro.] 




Monday, April 23, 2018

Leicester adieu

I font delle ferrovie e altri cartelli pubblici sono celebri e
 ad altissima leggibilità. Io ho scoperto quest'affascinante
storia in "Just my type" ma potete farvi un'idea anche qui.
 Chiudo la mia visita a Leicester alle 12.18, prendendo dalla stazione di London Road il "CrossCountry" di tre carrozze con destinazione Stansted Airport. Il treno attraversa queste lande verdi e ben curate con grandi pascoli e montagnole morbide appena accennate, punteggiate di pecore e qualche cottage.  Continuerà così per due ore e venti, nell'Inghilterra centrale con fermate varie fra cui nientepopodimeno che Cambridge).

Sono nel paese di Thomas Cook, l'inventore delle gite organizzate e delle agenzie di viaggio che portano il suo nome.  Ha lavorato qui, cristiano battista e attivista anti-alcol delle lega per la temperanza, ha spostato centinaia e poi migliaia di persone con le sue excursions, portava i clienti a vedere Londra o la Scozia utilizzando per la prima volta quella meravigliosa innovazione che fu la ferrovia.  In effetti, ogni volta che salgo su un treno in UK penso che le ferrovie le hanno inventate loro e si vede: le stazioni e le infrastrutture hanno un che d'antico e britannicamente industriale, mattoni rossi e pensiline di ferro ottocentesche.

Addento il mio panino, comprato da Jacks' durante la mia visita del centro di Leicester, a passo lento e un po' bighellonato, senza furia e senza grandi mete.  Ho percorso la New Walk, una passeggiata urbana alberata e vittoriana che ti porta in centro.  È là da 200 anni, non sorprende nemmeno tanto che si chiami new, evidentemente sono in un paese in cui il passato è abbondante e sempre presente.  Mi compro The Big Issue da un signore di una certa età, ormai è una tradizione e raramente torno dal Regno Unito senza il giornale di strada più geniale del mondo.


Tornando al panino, non è stato semplice sceglierlo al posto della jacked potato (''giaccapatata'' per consumatori accaniti come noi) ma non ho resistito alla baguette con bacon e stilton, "Would you like butter?", "Yes, please". A questo punto, dopo robuste English breakfast molto gradite, continuo a fare l'indigeno fino in fondo. La commessa mi dice che me lo scalda e lo avvolge nella stagnola, così resta caldino.  Ha ragione e in treno mi gusto, con mente e papille, questo panino sensato e ben radicato sul territorio.  Fra l'altro, ci siamo appena fermati a Melton Mowbray, Rural capital of food (così recita un cartello di benvenuto) e luogo d'origine proprio del formaggio Stilton con cui sto impercettibilmente oliando la tastiera.

Stamane, dopo aver raccolto le mie cose e scritto qualche email, sono partito alle 10.00 a piedi per il centro, tirando il trolley lungo la rettilinea Queens Road che pare una di quelle strade tipiche e un po' da cartolina, piena di negozi dal look britannico. Mi fermo anche al Post Office per vedere se posso mandare a casa tre volumi, pesanti come bimattoni, del CFA training program. Li ho raccattati in corridoio al dipartimento di economia dove molti si stanno disfando dei libri inutili per via di un trasloco.  Ci sono numerosi italiani in quel corridoio, fa sempre impressione vedere il numero di connazionali trapiantati all'estero.  Ma forse dovrei dire espiantati perché promanano una forte sensazione di precarietà e logorio psichico e fisico: raramente sembrano felici e pienamente integrati, continuano a parlare in italiano del'Italia, un po' trasandati, ossessionati dal tasso di cambio, dal tax rate, impauriti o, in ogni caso, preoccupati di come evolvono le cose e della pressione burocratica, sempre coi piedi in due scarpe a raccontarti anche che stanno "guardandosi intorno" per vedere se possono tornare.  Insomma, non mi hanno dato l'impressione dei fighi che lavorano all'estero di cui talvolta fantastichiamo e osservo, ancora una volta, che non sembrano per nulla fare la bella vita.

La commessa del Post Office è indiana e sveglia, mi dice che se spedisco tutti insieme i libri del CFA pago più di 30 sterline; prova con tre pacchetti separati ma mi servono sempre 25 pounds + 3 buste.  Nope, me li porto a casa in spalla col sudore della fronte.  Con grande gentilezza mi cambia le monete fuori corso di cui parlo in un altro post, anche se in teoria avrei dovuto andare in banca e aprire un conto.  Esco contento con un biglietto da 10 valido ma ancora di più perché ci sono ancora persone (di un piccolo ufficio di periferia) che inseriscono il cervello e l'anima per una piccola grande cosa, senza dire sempre no, non si può, non si deve...

Cattedrale di Leicester
 Dopo la new walk ho visitato la cattedrale, scortato dalle signore volontarie che mi hanno raccontato, fra l'altro, ogni dettaglio sul drappo che ha coperto la bara di Riccardo III, che è stato sepolto qui nel 2015. No, non sono fuso: RIII, come lo chiamano qui, è l'ultimo re d'Inghilterra morto in battaglia nel 1485, a Bosworth Fields. Il corpo però era andato perso, cose che capitano nel medio evo.  Ma la buona sorte ha voluto che le spoglie di RIII siano state trovate qualche anno fa.  Alla fine, con tanto d'expertise dei docenti della locale università e test del DNA, dopo avere accertato che le ossa erano proprio del sovrano, è stato risepolto e ora riposa finalmente in pace nella cattedrale.

È uscito un sole bello forte, l'altoparlante del treno gracchia più o meno che non funziona l'aria condizionata e che ci possiamo recare in un'altra carrozza.  Non ci penso nemmeno ma mi devo spostare dalla finestra verso il posto sul corridoio a caccia di ombra, continuando a godermi questo caldo tropicale con le maniche della camicia tirate su.  Verso la fine del viaggio scambio la grandiosa cattedrale di Ely per una chiesa di Cambridge. Arrivo a Stansted con robusto anticipo e, tenuto conto che il controllo di sicurezza è rapidissimo, finisco bivaccando due ore nell'area comune.  Anyway, I'm back!

Monday, April 16, 2018

A fossil in Leicester

Salgo sull'autobus, "One way to Leicester, please", "Seven thirty please". Fin qui tutto ok ma poi, quando sto contando le monetine, l'autista mi dice che le quelle monete da un pound sono fuori corso, vecchie, e sono state sostituite da quelle nuove. Mi sento un fossile sbarcato sul pianeta Regno Unito con l'armamento del secolo scorso comprendente monete scadute e paccottiglia varia.

Sopra le tre monete (dette anche sovrane, ma va?) andate fuori
corso e sostituite dalla due bimetalliche che raffigurano tanto
per cambiare Elisabetta sempre sia lodata.
Inutile dire che alla mia domanda se ho il tempo di fare bancomat risponde negativamente, non ha tempo né tanta voglia di attendere che un relitto si organizzi. Non mi perdo d'animo del tutto e, in pochi secondi, domando a una persona che aveva atteso l'autobus con me se mi poteva dare una banconota da 10 sterline in cambio di euro. Lo avevo sentito parlare in italiano, con una specie di accento romano. Dribbla la domanda ed evita di rispondere a tono, forse non ha nemmeno capito che non sono un barbone che chiede l'elemosina, eppure parla italiano come me... Al suo fianco però c'è Pieralberto e la storia prende un'altra piega. È italiano pure lui, mi paga il biglietto e gli do 10 euro resistendo al suo tentativo di darmi il resto (mi ha appena salvato la vita... altro che resto!)

Ci sediamo insieme e via via ne esce una cosa serendipitosa: ha appena finito un PhD in statistics a Warwick dove lo hanno assunto fresco fresco come teaching fellow, che è una posizione accademica centrata sulla didattica più che sulla ricerca (un po' come Robin che fa Math1B alla Ca' Foscari- Harvard Summer School). Poi viene fuori che è un matematico, che ha studiato a Padova, specializzazione sui metodi Monte Carlo e che abita a Castelfranco Veneto (yes, Casteo! a due passi da Riese e a 1500 kilometri da Leicester). Potenza della buona sorte, sono seduto a chiacchierare con un giovane entusiasta di didattica, ricco di pounds di qualità e, per certi versi, simile a un clone di quello che forse ero io nel mesozoico (fossile, no?)

Bella quest'Inghilterra che vedo di scorcio nei finestrini del bus finché chiacchiero con Pieralberto, il giardino del vicino è sempre più verde ma qui, veramente, è tutto tanto verde e le case sono quelle inglesi d'ordinanza, mattoni rossi a facciavista e inserti in legno bianco e infissi tradizionali.  Sono in UK e mi ritrovo a pensare a quanto sono cambiato rispetto ai decenni che mi separano dai tempi di Canterbury UKC, metà anni novanta. Le monete sono cambiate (anche se quei pound li ho raccattati ben dopo), tutto mi sembra anche tecnologico e avanzato, i bus ogni 20 minuti che portano dall'aeroporto di East Midlands (non proprio il belly button of the world) a Derby, Nottingham, Donington (nomen omen da queste parti dato che ciascun toponimo ha la sua storia di partite epiche, foreste infestate da affascinanti banditi e circuiti automobilistici) e, last but not least, Leicester. Sarò fossilizzato ma pensavo che in UK accettassero la carta di credito ovunque ma nel bus nisba e non finisce qui. Scendiamo e saluto Pieralberto alla S. Margaret Bus station e decido di prendere un taxi, se ciave sparagnar, guidato da un simpatico e attempato sikh con cui attacco bottone e che parla un bell'inglese. So far, so good ma al momento di pagare (poco più di 8 sterline) mi dice che non accetta la carta. Ma come, nemmeno tu? E io che pensavo che voi fosse moderni, ormai convinto dalla propaganda italiana, evidentemente pompata dalla Agenzie delle Entrate, che se usi il contante sei un lestofante e pure ignorante del progresso che avanza (dove?) "Dont worry, let me ask" Già, sono di fronte all'hotel dell'università e non ho dubbi whatsoever che mi anticiperanno 10 pounds sulla fiducia.
Una delle palazzine del College Court: moderno e
confortevole... ma portatevi quantità generose di contante!
Sono o non sono un loro ospite? Mi possono mettere in conto quel che gli pare. Non ho dubbio alcuno anche perché in famiglia ci facciamo un vanto di arrivare alla cassa, accorgerci che siamo senza soldi e fare il simpatico numero di chiedere credito sulla fiducia. Ci succede, di tanto in tanto, dal benzinaio, al supermercato, dal giornalaio... mica te li frego e tanto te li porto a breve quando ripasso a rifare il pieno, ricomprare la verdura o "Il corriere". Ma il receptionist chiede alla collega supervisor, che mi dice che deve chiedere al manager, che arriva e, non sapendo a chi altro chiedere, mi dice che mi posso fare portare a un bancomat e pagare. Bravo, complimenti, si vede che sei manager e non hai né le balle né l'autorità morale e sostanziale di anticipare 10 pounds a un cliente che ti ha appena dato  la sua carta di credito al check-in: proprio beo, anzi bueo! All in all, tre persone: receptionist, supervisor, manager, faceva poco più di tre a testa, mah!

La prendo bene, rimonto sul taxi-sikh e andiamo a caccia di un bancomat che troviamo abbastanza presto. Incasso 50 pounds e pago il conducente: adesso, fra tira, molla, consulta receptionist, supervisor, manager, speta, vai al bancomat e ritorno, il conto è salito a 13 sterline. Rifletto su questa modernità inglese e sulla mia antichità italica e fuori corso, è stato un flash suggestivo: il taxista si scusa molte volte e pure io, alternando "dont worry" a scuse a  mia volta per non avergli chiesto prima se accettava la carta che pensavo in UK ormai accettassero anche al mercatino dei fumetti usati, quello che fanno le bambine sveglie sulla coperta a bordo strada.


Mi rifiuto di mangiare nel ristorante chic e moderno del "College court" che mi ha appena negato un "prestito" usa e getta e mi faccio indicare un pub nelle vicinanze. Finisco al "Cradock Arms Knighton" -nec temere nec timide- e sono momenti di gloria: assaporo una pinta e mezza di Plum Porter, mangio carrots and coriander soup of the day e un grandioso fish and chips. Sono stato bene ma sorvolo sull'accento simil-scozzese e sul cibo. Al momento del conto la cameriera, tanto per non fossilizzarsi, mi chiede se voglio usare la carta di credito in modalità touch... gasp! Io di solito firmo e non digito nemmeno il codice! È un giorno di contrasti, nella mia testa e nei mezzi di pagamento, sono passato da monete fuori corso alla prima volta della carta touch che in effetti è una spada: uno sfioramento leggiadro e 20.20 sterline sono dedotte dal conto con facilità estrema e un filino preoccupante per un flinstone come me in libera uscita nelle Midlands.

Austero muro esterno dello storico pub (il sito invece è moderno, oggi va così).In ogni caso merita una o due o più visite, anche per la mirabile selezione di ales e vini (inclusi prosecco Bolla da 20 cc a 7 sterline e prosecco S. Orsola, quello che si fa pubblicità in una gondala, a 20 sterline).