Friday, February 07, 2014

De-Scrivere la crisi

Una locandina glamour si fa largo fra le altre appese a dozzine sulle bacheche in università.  Guardo meglio e mi accorgo che la tipa dipinta in short su sfondo blu ha una gamba di legno, a mo' di pirata con tante battaglie alle spalle, in alto poi c'è scritto "Greece next economic model".  Ok, ce n'è che basta per farmi leggere per benino: è il mio incontro col convegno "De-Scrivere la crisi: narrazioni dell'Europa presente", organizzato dai colleghi del Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati il 30 e 31 gennaio.


La crisi, e io pensavo prevalentemente a quella finanziaria, non l'abbiamo mica capita, né tanto né poco: ci sono letteralmente decine di storie che girano sui colpevoli, sui semi che l'hanno generata ("semo" in veneto ha semantica variegata ed appropriata...), sulla miopia politica che non l'ha fermata e sulle mancanze di coraggio (e attributi) che hanno consentito che durasse per anni, dal 2007 circa al 2104 e chissà quanto altro.  Questa circostanza mi ha sempre colpito: se gli economisti, di fronte a questo bagno di sangue, non hanno coagulato nessun pensiero o argomento condiviso e coerente, che cosa ci pagano a fare?  È evidente che finché una cosa non la capisci hai pochi mezzi per evitarla o per porci rimedio, ti resta solo fra capo e collo finché, bontà sua, non passa.  Non è un quadretto rassicurante.

Volevo sentire cosa avevano da dire dei colleghi "letterati", diciamo che ero curioso di sapere che storie avevano in serbo loro sulle contorsioni della crisi odierna, pensando che di narrazioni se ne intendono di sicuro più di me. In due giornate di pioggia battente e acqua alta gagliarda, decido quindi di andare a Ca' Bernardo, strepitoso palazzo con vista sul canal grande, di fronte a Palazzo Grassi (in omaggio al vil denaro, un rettore di passaggio lo venderà per farne un albergo. Ma questa è un'altra storia).

Ho trovato le narrazioni di "De-Scrivere la crisi" enormemente interessanti e tutte molto diverse dalle storie a sfondo economico che avevo annusato qua e là.  Il focus non era su finanza, regolamentazione e macroeconomia, molti relatori hanno descritto come artisti e opinioni pubbliche abbiano percepito la crisi con straniamento, come una rottura del legame fortissimo che lega il lavoro, perso, al senso della vita e alla speranza di progresso.  Uno dei (pochi?)  messaggi trasmessi su vasta scala era ed è "keep calm and carry on", anche in Italia in fondo non abbiamo fatto altro che comprare tempo.  Magari, vista la coriandolizzazione della nostra politica e la rarefazione di idee e ideali praticabili, non c'era altro da fare.  Wait and see, tutte le recessioni prima o dopo passano...

Alcune immagini le possono scovare solo i letterati (o economisti più colti di me): il toro di borsa (bull) è stato paragonato al minotauro che divora i suoi figli.  In fondo è proprio così per tutte le bolle e qualche Grecia incombe sempre tragicamente su di noi, ora come allora.  Mentre io ero abituato a cercare nei modelli concretezza e il supporto di dati empirici, ho sentito invece parlare di "massicce iniezioni di individualismo" che hanno svuotato le persone di qualsiasi identità collettiva che consentisse di arginare lo sfacelo a livello di comunità.  Scrivo queste cose perché mi sono sentito sotto shock, uno che fa modelli che spiegano si e no un francobollo e quindi non spiegano proprio nulla.  I modelli di noi economisti mi sono veramente sembrati armi di distrazione di massa, piccoli calimeri in un oceano di cause di lungo periodo che solo i sociologhi, storici e artisti intuiscono, ricostruiscono e percepiscono sottopelle.  Ho sentito parlare di modelli di integrazione europea, di un visionario Sicco Mansholt e di un Barroso affetto da nanismo intellettuale, di austerity vestita retoricamnete da "fare i compiti per casa", dell'Islanda del "fokking fokk", di Polanyian disembedding, di capitalismo estrattivo, del fantasma delle sovranità nazionali...

Prima che pensiate che, folgorato, sono caduto da cavallo devo ammettere che il convegno mi ha allargato i neuroni e fatto balenare in mente modelli altri, nutriti dalla giusta distanza dai numeri della statistica ufficiale e dei think-tank.  Forse di modelli della crisi ne potremmo e dovremmo fare di differenti, almeno fino a quando non ci sarà una qualche storia, pardon narrazione, condivisa e non sapremo come va a finire.  Come spesso accade sembra però materia per gli storici, da distillare nei decenni che verranno.  Chiudo con un desiderio suscitato da "De-Scrivere la crisi": leggere "Furore" di Steinbeck che pare essere la summa della madre di tutte le crisi, quella del '29.

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